Estradizione di Assange a Usa, se ne riparla fra sette mesi

Un fermo immagine tratto da un video pubblicato sulla pagina Facebook di Ruptly Tv mostra un momento dell'arresto di Julian Assange nell'ambasciata dell'Ecuador a Londra.
Un fermo immagine tratto da un video pubblicato sulla pagina Facebook di Ruptly Tv mostra un momento dell'arresto di Julian Assange nell'ambasciata dell'Ecuador a Londra.

LONDRA. – Tempi lunghi, come previsto, nella contestatissima partita per l’estradizione dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti di Julian Assange. Che da parte sua usa l’arma del sarcasmo contro chi vorrebbe vederlo dietro le sbarre per sempre: “Sono in gioco 175 anni della mia vita”, ironizza rivolgendosi alla giudice di primo grado britannica Emma Arbuthnot, con un riferimento alla pena massima che rischierebbe sulla base dell’inedita accusa americana di “spionaggio”.

L’iter processuale è stato inaugurato di fronte alla Westminster Magistrates Court di Londra con la raccolta delle carte e una prima audizione delle parti. E la seduta si è chiusa con la decisione della Arbuthnot di fissare per il 25 febbraio 2020 l’avvio della discussione sul merito, destinata a protrarsi per 5 udienze prima d’un possibile verdetto suscettibile di ricorsi presso istanze di giudizio superiori. Come a dire che se ne riparlerà fra 7 mesi e oltre.

Ma intanto si è potuta udire per la prima volta in aula la voce del fondatore di WikiLeaks. Ricoverato in condizioni di salute precarie nel settore ospedaliero del carcere inglese di massima sicurezza di Belmarsh – dove per ora sconta una condanna a 50 settimane di reclusione per aver violato i termini della cauzione nel 2012, quando si rifugiò nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra in forza di quell’offerta di asilo revocata sei anni dopo – il 47enne attivista australiano è apparso in video-collegamento con una folta barba bianca a incorniciargli il volto.

Provato, ma non domo, ha interloquito con la giudice rivendicando la propria attività come un contributo alla trasparenza, a informare l’opinione pubblica mondiale. “WikiLeaks non è mai stato altro se non un editore”, ha tagliato corto. Di qui le argomentazioni di uno dei suoi avvocati, Mark Summers, secondo cui la richiesta d’estradizione rappresenta “un oltraggioso attacco frontale ai diritti del giornalismo”.

Sulla trincea opposta, Ben Brandon, chiamato a rappresentare le autorità di Washington, ha detto viceversa che la domanda “si lega a una delle più vaste compromissioni d’informazioni confidenziali nella storia Usa”. Assange è stato accusato oltreoceano dapprima di pirateria informatica, quindi della ben più grave violazione presunta dell’Espionage Act: imputazione senza precedenti per un caso di pubblicazione sui media di documenti riservati.

Accuse che secondo un altro avvocato della difesa, Jennifer Robinson, sono in realtà frutto di spirito persecutorio di “vendetta” contro Wikileaks, presa di mira per aver diffuso dal 2010 centinaia di migliaia di file segreti americani. Incluso materiale fatto uscire dal Pentagono dalla talpa Chelsea Manning con imbarazzanti evidenze di crimini di guerra commessi in Iraq e in Afghanistan sotto la bandiera a stelle e strisce: materiale poi in parte pubblicato in collaborazione con grandi testate internazionali fra cui il Guardian o il New York Times.

Al centro anche di un non meno controverso caso di sospetto stupro, chiuso e riaperto a più riprese in Svezia senza mai sfociare in un’incriminazione e sempre denunciato come una montatura dall’interessato e dai suoi sostenitori, Assange ha trovato del resto pure oggi l’appoggio di un drappello di manifestanti riuniti di fronte alla corte britannica per invocare il no all’estradizione.

Un no condiviso da Amnesty International, secondo il cui vicepresidente per l’Europa, Massimo Moratti, l’eventuale consegna agli Usa dell’australiano da parte di Londra sarebbe una minaccia concreta “ai suoi diritti”. Al diritto di non essere esposto a rischi di “tortura, maltrattamento, ingiusta detenzione o pena di morte”.

(di Alessandro Logroscino/ANSA)