Il caso di Carola Rackete: tra l’idolatria e un odio ingiustificato

Il caso del capitano della Sea Watch 3, Carola Rackete, ha rovinato i piani di Matteo Salvini e del suo Decreto Sicurezza Bis che posto di fronte alla prima vera prova, si è sciolto come neve al sole. (FOTO TPI)

Dopo l’ennesimo braccio di ferro tra il Ministro dell’Interno e una ONG carica di migranti, il nostro Paese si ritrova nella stessa e identica situazione di qualche mese fa. Da un lato coloro che al grido di “restiamo umani” parteggiano per il capitano Carola Rackete, nuovo idolo di un’opposizione incapace di far valere la propria voce senza aiuti esterni, dall’altro i sostenitori della politica “dei porti chiusi” di Matteo Salvini.

Ma andiamo per gradi. Il 12 giugno una nave di una ONG olandese ha soccorso 53 persone da un gommone al largo della Libia. Per 17 giorni, di cui solo 2 di navigazione, questa nave resterà in mare in attesa di un porto sicuro in cui sbarcare. Un’odissea che si concluderà soltanto la notte tra il 28 e il 29 giugno con l’ormai celeberrimo “speronamento” di una motovedetta della Guardia di Finanza nel porto di Lampedusa.

Lo scontro tra “i due capitani” è iniziato proprio nel momento in cui la Sea Watch 3 ha fatto rotta verso Lampedusa. Tra le ingiurie di Salvini che intimava al comandante della nave di cambiare rotta perché in Italia avrebbe trovato solo “porti chiusi” e la determinazione di una donna decisa a fare di tutto per portare in salvo 53 persone. Così è stata dipinta la vicenda dalla maggior parte dei media nostrani.

E non è finita qui. La vicenda è proseguita dopo lo sbarco dei migranti e l’arresto del capitano Carola Rackete per aver speronato la motovedetta della Guarda di Finanza dopo che quest’ultima le aveva intimato l’alt all’imboccatura del porto. Pochi giorni dopo il GIP (giudice per le indagini preliminari) di Agrigento disporrà la scarcerazione perché le accuse di “violenza e resistenza a nave da guerra” (art. 1100 del Codice di Navigazione) e resistenza a pubblico ufficiale non sussistono. Da lì un’altra voragine si è aperta all’interno dell’opinione pubblica italiana, sulla scia di quella che aveva caratterizzato fino a poche settimane fa il CSM e la magistratura. Dalle “toghe rosse” alla “magistratura collusa con gli scafisti”, i social si son davvero scatenati nei confronti delle due donne coinvolte nella vicenda (la Rackete e il GIP), arrivando addirittura a rivolgerle delle tristissime ingiurie sessiste.

Purtroppo, in fondo ad un argomento di cui si sottovaluta l’elevata complessità etica, morale e soprattutto giuridica, si commette sempre l’errore di esprimere un parere, certe volte con troppa forza, arroganza e veemenza, credendo di avere la ragione in pugno. Ciò deriva da un’errata narrazione politica della vicenda, la quale fa credere ai propri “followers” di avere la verità a portata di click. Di conseguenza, un elettore incosciente si sente in grado di giudicare una vicenda che all’apparenza sembra chiara ma che richiede, invece, un approfondimento adeguato.

E’ ciò che è successo in Italia, dove gli schieramenti si son contrapposti in base a questo ragionamento. Da un lato i salviniani che a momenti invocavano la pena di morte nei confronti del capitano tedesco, dall’altro un’opposizione alla canna del gas che appena avuta l’occasione è piombata sulla nave olandese per l’ennesima passerella.

“Il caso Rackete secondo la legge”

La ricerca della verità, quella giuridica almeno, va eseguita travalicando i confini nazionali. Poiché sul caso Carola Rackete gravitano una serie di Convenzioni che l’Italia ha ratificato nel corso degli anni e che, di norma, prevedono norme di rango superiore rispetto ad un decreto legge di uno Stato nazionale (in questo caso il “Decreto Sicurezza bis”). Nello specifico c’è bisogno di una “spiegazione” e non di una “narrazione politica” della vicenda, “conoscere per capire” in poche parole.

Ogni Stato costiero, ai sensi della Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare del 1982, deve predisporre un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso, collaborando a questo fine con gli Stati adiacenti. Tale obbligo di collaborazione è specificato in altri Trattati Internazionali: la Convenzione Internazionale per la sicurezza della vita in mare (Solas) e la Convenzione Sar (di ricerca e soccorso marittimo) senza contare anche le Convenzioni sui diritti umani che considerano la vita come un diritto inalienabile (come la CEDU, la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali).

Ma restando sul diritto del mare, le zone di ricerca e salvataggio sono ripartite di intesa tra gli Stati interessati e un Paese il quale abbia ricevuto notizie di persone in pericolo di vita nella propria zona di pertinenza deve intervenire immediatamente onde evitare il peggio, mettendo a disposizione un posto di sicurezza per lo sbarco. Il luogo sicuro (porto sicuro) non è sempre il porto più vicino. Infatti le operazioni di salvataggio non si esauriscono con le prime cure mediche o con il soddisfacimento dei bisogni immediati. Un posto sicuro deve pure garantire la sicurezza effettiva delle persone in termine di protezione dei loro diritti fondamentali, nel rispetto del non respingimento (Montego Bay, 1982).

Gli obblighi suddetti sono stati completati da alcuni emendamenti dall’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO), i quali impongono agli Stati stessi di cooperare affinché i comandanti delle navi siano sollevati dagli obblighi di assistenza delle persone tratte in salvo, evitando deviazioni di rotta rispetto a quella prevista e permettendo loro di portare al sicuro le persone coinvolte.

Come in tutte le leggi, però, è presente una zona grigia. Nelle acque libiche, ad esempio, l’autorità predisposta all’accoglienza è quella dello Stato Libico, ma essendo stato questo dichiarato “porto non sicuro” (lettera dell’ONU, raccomandazione del Commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa, sentenza del GIP di Trapani) a causa della guerra in corso, a chi spetta il primo soccorso in quelle acque? Le Convenzioni non forniscono criteri puntuali su una situazione del genere, però, a questo proposito ci pensano gli emendamenti.

Questi ultimi prevedono un obbligo generalizzato per i Paesi firmatari di cooperare con il comandante della nave per sollevarlo dall’assistenza delle persone a bordo. Ciò nonostante, potrebbe verificarsi che i Paesi in questione non siano disponibili per lo sbarco e che quindi la nave resti priva di indicazioni. In poche parole potrebbe accadere che la nave sia costretta a stazionare in mare per sempre.

Appurato che una nave non può stazionare all’infinito in mare, la palla passa all’unica persona in grado di comprendere quanto sia importante la vita delle persone a bordo della nave: il comandante (in questo caso la malcapitata Carola Rackete). Egli, nell’espletamento della sua missione, è titolare di una discrezionalità molto ampia, che deve esercitare considerando la situazione in cui si trova e, quindi, ogni elemento concreto può assumere importanza (secondo le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare). Nello specifico, il comandante deve tener conto delle circostanze particolari di bordo, come la situazione dei passeggeri, le condizioni meteorologiche, le esigenze mediche…

“E la Tunisia? Anche la Tunisia è un porto sicuro”. La Tunisia, pur essendo più sicura della Libia, non garantisce alcuno status di protezione legale. Infatti Tunisi non fornisce alcun permesso di soggiorno ai rifugiati, poiché questi secondo la locale legge non ne avrebbero diritto. Il rischio per i rifugiati, in caso di esito negativo della loro richiesta, è che possano essere trasportati in Niger ed essere esposti a torture e sevizie da parte delle milizie che controllano i territori al di fuori della giurisdizione umanitaria dell’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati).

Quindi, in base alle Convenzioni e agli emendamenti ratificati dal nostro Paese, la vicenda pende in favore dell’azione del capitano della Sea Watch 3. La Rackete, messa alle strette dallo stallo politico apertosi con la sua decisione di far rotta verso Lampedusa, ha agito di conseguenza. Nell’esercizio della discrezionalità che le era demandata e in assenza di collaborazione da parte delle istituzioni competenti (le istituzioni italiane son tenute a collaborare con il capitano della nave), la Sea Watch 3 ha ritenuto di dover soddisfare le gravi esigenze di bordo, facendo sbarcare i migranti presenti sulla nave.

A questo si ricollega anche la decisione del GIP di Agrigento. Il decreto sicurezza bis su cui Salvini ha fondato la chiusura delle acque alle navi delle ONG non è applicabile alle azioni di salvataggio. E la contestazione di altri reati, come la resistenza ad una nave da guerra e ad un pubblico ufficiale, son stati recentemente confutati e ritenuti “non sussistenti”. La motovedetta della GdF non è assimilabile ad una nave da guerra (una motovedetta della GdF è ritenuta “nave da guerra” solo quando opera al di fuori delle acque territoriali) e la resistenza a pubblico ufficiale è giustificabile in base ad una scriminante: “Carola Rackete ha agito in adempimento di un dovere” (salvare le vite in mare).

L’odio ingiustificato: una precisa strategia per deviare l’opinione pubblica italiana

Un odio ingiustificato, nei confronti di Carola Rackete, si è riversato sulle prime pagine di alcuni giornali, i quali come al solito, hanno ritenuto di dover aizzare l’opinione pubblica da un lato o dall’altro della barricata senza ritenere di dover, invece, calmare le acque spiegando i fatti per come stanno realmente.

Tutto ciò mentre la politica giustifica le proprie responsabilità nella vicenda nascondendosi dietro a beceri messaggi di propaganda spicciola. In particolare, il Ministro Salvini, il quale, pur invocando un accordo di equa redistribuzione dei migranti, non si è presentato nemmeno ad un Consiglio dell’Unione Europea che trattava del suddetto argomento. Celeberrima è la sua diserzione ad una di queste riunioni interministeriali per andare a far propaganda dalla D’Urso a Pomeriggio Cinque. Inoltre, nel Novembre 2018 a Strasburgo si votò per la revisione del Trattato di Dublino, richiesta a gran voce dalla destra intera: perché i leghisti si son astenuti dalla votazione? E perché i Cinque Stelle hanno votato contro?

A questo punto il vero problema non è l’Unione Europa (e le sue istituzioni) ma gli Stati.

A proposito del Movimento Cinque Stelle, sembra ormai chiara l’intenzione di Luigi Di Maio di seguire a ruota l’attività di continua propaganda contro le “lobby delle ONG” del suo alleato di Governo. Con una crisi interna che sa’ di scissione (vedasi le ultime dichiarazioni sul “fratello-coltello” Alessandro Di Battista), al buon Luigi ora interessa solamente scongiurare un ritorno al voto nel breve termine. In poche parole al Movimento ora interessa “sopravvivere”, almeno sulla questione migranti. Al di là delle intenzioni, però, alcuni esponenti di spicco si son lasciati sfuggire alcune dichiarazioni in merito alle considerazioni di Salvini sul caso Sea Watch e Alex (un’altra nave approdata a Lampedusa nelle scorse ore, Salvini ha dichiarato di “sentirsi solo” riferendosi ai ministri pentastellati), come conseguenza dell’evidente insofferenza nei confronti della sfrontatezza del leader del Carroccio. In poche parole il Movimento Cinque Stelle è diviso in due: i filo-governativi come Di Maio, i quali seguono la linea governativa sia per motivi elettorali che per motivi di sopravvivenza, e gli anti-casta (in origine tutti i grillini lo erano) guidati da un Alessandro Di Battista che tra un viaggio e l’altro ha capito di essere pronto per prendere le redini del derelitto movimento degli italiani onesti.

La posizione degli altri Stati sul caso Rackete

Oltre il Brennero, invece, si leva un grido dal sapore strano (“aprite i porti”), proveniente da un individuo che fino a qualche tempo era il massimo sostenitore della linea restrittiva in tema di migrazioni. E’ la voce del ministro tedesco Horst Seehofer, il quale sembrerebbe aver rivisto le sue idee; idee che lo hanno portato più volte a paventare la crisi di governo con Angela Merkel. Nel 2017, quando era leader dei cristiano-sociali bavaresi teorizzò addirittura la chiusura del Brennero. A queste uscite se ne collegano altre sull’Islam e sull’immigrazione, ancora più radicali.

Più volte nei bilaterali con il cancelliere austriaco Sebastian Kurz e con il suo omologo italiano, Salvini, Seehofer ha ribadito la necessità di una soluzione europea del problema dell’immigrazione e ha sostenuto l’idea di una protezione delle frontiere esterne. E’ incredibile come queste dichiarazioni, cariche di ipocrisia, possano provenire da un individuo che, come Salvini se non peggio, propugna la chiusura totale delle frontiere, inasprendo le misure sui rifugiati e sulla concessione del diritto d’asilo, o peggio, caricando i migranti, opportunamente narcotizzati, sugli aerei per spedirli in Italia.

A Seehofer si accompagnano anche le abituali dichiarazioni dei cugini d’oltralpe che continuano a pontificare sul comportamento italiano definendolo “vergognoso”, dimenticandosi che negli anni scorsi anche loro avevano chiuso le frontiere, arrestando addirittura gli italiani che prestavano soccorso ai migranti in territorio francese.

L’ipocrisia regna sovrana in Europa, ma la responsabilità, al contrario di quanto si creda, non è delle istituzioni continentali bensì degli Stati, delle loro antiche rivalità e soprattutto della reticenza di questi ad assumere un atteggiamento realmente europeo, cioè solidale. A questo proposito, la proposta di revisione del Trattato di Dublino sopracitata, una volta approvata tra tante polemiche, è stata bloccata dal Consiglio dell’UE a causa delle reticenze degli Stati del Sud (Italia, Spagna e Grecia) e da quelle dei Paesi del blocco di Visegrad, i quali come sempre sono più propensi a ricevere che a dare. Seppur con alcuni limiti, la riforma del Trattato di Dublino avrebbe potuto rappresentare un punto di partenza per una discussione più ampia, cercando di superare le divergenze puntualmente presenti a causa della necessità di alcuni stati di conservare lo status quo.

Il fallimento della riforma in Consiglio UE è arrivata soprattutto grazie alla ferma opposizione degli alleati di Salvini, tra cui Orban. Non si comprende ancora il perché il Ministro dell’Interno prediligi la pista orientale, poiché è evidente che gli interessi dei due Paesi siano diametralmente opposti.

Lo “status quo” che non piace all’Italia

Per ancora molto tempo, a causa del fallimento della revisione di Dublino, perdurerà la stessa situazione in cui ci troviamo attualmente invischiati. Nonostante alcuni limiti, una discussione attorno ad un problema decennale che vede l’Italia in prima fila, avrebbe dovuto essere sicuramente più attenta e ponderata. Invece, a partire dai nostri parlamentari “sovranisti” che si son astenuti o hanno votato contro, la riforma è caduta in uno stallo che difficilmente verrà superato.

Il superamento dello status quo se da un lato rappresenterebbe una soluzione eccezionale, dall’altro invece, porterebbe alla fine di un’opportunità politica vitale per l’attuale governo. Con la flat tax ancora in alto mare (Salvini la vorrebbe inserire nella legge di bilancio, Di Maio no a causa delle coperture inesistenti), l’unico appiglio per la Lega è proprio la politica migratoria. Il fallimento di questa “linea dura sull’invasione” potrebbe rappresentare una sconfitta dell’intero partito e del suo leader, ormai proiettato vero il 40% dei consensi.

“Dietro ogni problema si nasconde un’opportunità”. Sembrerebbe essere questo il motto dietro cui si nasconde la Lega di Salvini. Altrimenti, perché non presentarsi ai vertici interministeriali europei? Oppure, se è vero che esiste un problema con le cooperative “rosse”, perché non inasprire i controlli e far chiudere quelle che non sono spinte da “motivi umanitari”?

Invece di paventare soluzioni insostenibili, ingiurie o quant’altro, perché non predisporre delle indagini sul territorio nazionale nei confronti di coloro sospettati di lucrare sui migranti? Perché non siglare patti bilaterali con i Paesi del Mediterraneo centrale per il controllo delle acque affinché si chiarisca la posizione di alcune ONG, secondo Salvini “sospette”? Perché non iniziare a lavorare concretamente sulla questione, di concerto con gli altri ministri europei, soprattutto quelli dei Paesi del Sud Europa, più esposti ai flussi migratori?

Dall’altro lato della maggioranza, invece, i Cinque Stelle continuano a sonnecchiare, dopo che le dichiarazioni in merito al caso CSM avevano fatto sperare un “rigenerante” risveglio, con il loro leader preoccupato dalle divisioni interne e osteggiato dal “fratello-coltello” Di Battista. Ai grillini, per ora incapaci di concepire una “strategia politica comune” converrebbe risolvere prima i loro problemi interni, pericolosi per la sopravvivenza stessa del partito.

Di questo passo, di casi Rackete ce ne saranno a bizzeffe. L’ultimo proprio in queste ore mentre la nave dell’ONG “Mediterranea”, Alex, è approdata a Lampedusa e si sta per profilare l’ennesima guerra mediatica, la quale va a coprire gli altri sbarchi che avvengono a telecamere spente (tenendo presente che la Alan Kurdi, non ha ancora effettuato lo sbarco a Malta).

Inoltre, finché l’opposizione sarà incapace di concepire una strategia politica coerente, non ridicola, ed efficace, dovrà continuare ad aggrapparsi ad espedienti esterni che non faranno altro che peggiorare la sua posizione. L’idolatria ingiustificata per il capitano Carola, è uno di questi.

Fin quando i politici non vorranno trovare una soluzione d’insieme, gli italiani saranno costretti a subire umilianti battibecchi che non rendono onore al nostro prestigio, alla nostra intelligenza e soprattutto alla nostra storia.

Donatello D’Andrea