Le pepite d’oro

Cercatore d'oro e pepite luungo un fiume col setaccio in mano
Cercatore d'oro.

Non si può più vivere in quest’inferno dove, se a tratti tacciono i cannoni che disseminano di morti la piana di Tardiano o il bosco di Petina[1], ti ammazza, in ogni caso, la miseria con il suo volto di fame e di bimbi malnutriti. È per questo che Vito, appena sposato, non esita ad accettare il passaporto venezuelano che le autorità di quel paese gli offrono in riconoscimento dei servigi resi dall’intrepido padre che, nel lontano 1900, per otto anni, era vissuto lì, fino a quando il “Cabito” s’imbarca per la Francia con la moglie donna Zoila per non farvi più ritorno se non dopo morto e sepolto[2].

Era il 1926, anno dell’inizio della colonizzazione italiana proclamata da Mussolini nel teatro Miramare di Tripoli quando, dinanzi a una folla delirante che lo acclamava con sfrenati applausi, grida come un torello sbrigliato che gli italiani “abbiamo fame di terra perché siamo prolifici…”.

− Me ne vado da questa merda prima che mi mandino a bruciare il culo da qualche parte di quell’Africa selvaggia dove solo abbondano i deserti di sabbia arroventata e insetti che, per le dimensioni, somigliano a elicotteri da guerra − dice a se stesso Vito, la cui decisione non lascia sorpreso nessuno, visto che nella natia Montesano, sin dal secolo precedente, i suoi coraggiosi abitanti avevano conosciuto le diverse destinazioni del mondo per tentare di far fortuna.

Suo padre, tuttavia, lo mette in guardia sul fatto che il Venezuela non è poi così diverso dall’Africa selvaggia che lui s’immagina, anche se, a differenza di questa, la terra di Bolívar abbonda d’oro ed è semplice trovarlo per il proprio benessere.

− Tuo zio ha un allevamento di bovini lontano da Caracas − aggiunge per incoraggiarlo. − Zaraza[3] è il nome del villaggio. Devi sapere che nelle immense distese pianeggianti la terra non ha padroni. Il primo che arriva pianta i picchetti nel terreno generoso, mette il filo spinato fin dove gli pare e stabilisce i confini. Certo, è faticoso trarne i frutti se non cola il sudore dalla fronte come l’acqua del torrente che scorre tranquillo tra gli arbusti dove si nascondono i caimani feroci e i capibara dalla carne pregiata. Del resto, è per questo che si emigra, no?

Non mancavano argomenti al padre, già esperto di pianure e di savane, di tropici inclementi e di sentieri ispidi. A Vito, tuttavia, nonostante il silenzio di quelle terre distanti dal trambusto umano, piace il paesaggio tappezzato da migliaia di palme, e rimane estasiato dal volo multicolore di gazzelle e di caricares, e ancor di più di fronte alle chenchenas e ai gabanes[4] che, quando vanno a stormi, occultano il cielo azzurro lievemente velato da nuvole passeggere. Comincia, dunque, il lavoro nella fattoria del parente, ma in pochi giorni capisce che il ruolo del contadino non fa per lui che ha un’indole raffinata e, perciò, ritiene di doversi concedere la ricerca di alternative migliori.

− Non sono venuto da così lontano per mungere le mucche o per abbeverare i cavalli al fiume. No − si dice. − Io sono venuto per fare ciò che gli altri non possono o non sanno. Inoltre, mi devo affrettare a fare fortuna per tornare presto a casa.

L’occasione per il giovane si presenta in un giorno di gloria, un sabato infuocato del mese di maggio colorato di araguaneyes[5] fioriti. Durante un viaggio nella vicina città di Barcellona[6], per quelle coincidenze della vita, s’imbatte in un marinaio panamense che dice di avere nella barca attraccata al molo un carico di stoffe da contrabbando.

− Te lo vendo a buon prezzo − insiste l’uomo. − Dammi quello che hai e chiudiamo l’affare, perché ho il presentimento che la guardia costiera mi stia alle calcagna.

Vito, ovviamente, nelle sue tasche rattoppate porta soltanto aria di pianura e pene di savana. Quando, però, commenta l’incontro all’amico paesano, a cui portava un barattolo di salsicce fresche sott’olio inviatogli dalla madre, costui non esita un istante a mettergli nelle mani, ancora poco callose, una manciata di monete d’argento raffiguranti il volto di Bolívar il grande[7], e lo incoraggia a concludere l’affare perché, gli dice, è così che si inizia in questa terra magica che, ansiosa, attende la gente coi coglioni per intraprendere il volo verso lo sviluppo.

− Vicino a Zaraza − continua a dire l’uomo − nella zona est, sorgono gli insediamenti di alcuni indios che chiamano Kariñas. Più a sud, vi sono altri detti Pemones e Arekunas[8]. Lì, di sicuro, venderai qualsiasi cosa. Vanno pazzi per le stoffe colorate perché le donne le usano per decorarsi quando celebrano i riti delle loro antiche tradizioni. Non hanno idea del valore degli oggetti che acquistano dai viaggiatori quando costoro osano sfidare gli agguati della selva e s’inoltrano fino a quei luoghi. Pagano con oro. Con pepite d’oro che estraggono dai fiumi popolati da caimani e da velenosi serpenti d’acqua.

Vito si carica di coraggio e acquista il contrabbando che porta alla fattoria in un carretto preso in noleggio con conducente. Convince lo zio che vuole tentare la sorte e prepara un mulo con cui all’alba parte in direzione del territorio toccato dalla mano del re Mida.

Avanza il giovane tra boschi e fiumi, savane e lagune, e acebuchales[9] di sette metri ed oltre, che nascondono tra le foglie uccelli dal becco lungo e acuto, scimmiette giocherellone, o serpenti dai molteplici colori. Non lo spaventano il frinire dei grilli e delle cicale che dal fragore se li immagina giganteschi. Neppure lo spaventano gli ululati che non distingue se sono di cani o di lupi, di affamati cunaguaros[10], o di báquiras[11] feroci. No. Solo lo tormentano il ronzio di zanzare rare che, come aeroplani invisibili atterrano in ogni buco del suo volto: occhi, naso e orecchie. Pungono lasciando vesciche lungo tutto il corpo via via che le unghie le scoppiano per il prurito insopportabile.

Dopo due giorni di intensa battaglia con i cardi spinosi che gli impediscono la marcia, con le zanzare inclementi che non lo lasciano in pace e con gli infiniti rumori della selva madre, appare finalmente una capanna di bambù costruita con perizia tra tre rami di un enorme renaco[12] solitario. Gli si avvicina un bambino nudo e paffutello e, dietro di lui, una donna assai bella, anch’ella una bambina di non oltre quattordici o quindici anni, con un pargolo attaccato a un seno piccolino ma ben tornito.

− Sembrano pacifici − pensa il giovane, nonostante non riesca ancora ad accantonare il timore di qualche imboscata repentina.

Non trova le parole anche perché non saprebbe come dirle. La ragazza sorride e lui ricambia. Dopo un po’ arrivano gli uomini: un anziano dai capelli lunghi e lisci, e un altro che è la sua copia di trent’anni meno. Lo invitano alla capanna e, facendo dei segni, gli offrono da bere uno strano miscuglio servito nel guscio di una noce di cocco. Disgustoso il liquido per il suo palato abituato solo al vino e ai liquori dolci della sua amata patria. Beve comunque, perché così gli aveva suggerito lo zio: è un affronto per gli indios rifiutare una loro offerta. Poi, con maggior fiducia, cerca di farsi capire che porta stoffe di buona qualità da vendere agli indios della tribù, e chiede se sia distante l’accampamento. Non gli rispondono se non qualche istante dopo. Si sfregano più volte i panni tra le mani e li odorano come si fa con il vino appena versato in un bicchiere. All’improvviso, il più anziano si alza dal tappeto ricamato e, in uno spagnolo molto basilare, gli dice severo fissandolo negli occhi:

  • Yo comprar todo. Yo pagar con morocotas[13].

Estrae da un sacchetto di pelle di cervo, allacciato con una corda di canapa essiccata, otto o dieci monete che sembrano di argento massiccio, ma che Vito non conosce affatto. Così, ricordando le parole dello zio che lo aveva messo in guardia anche sulla fama da imbroglioni che hanno gli indios, dubbioso circa la legittimità di quelle monete e sul loro reale valore, controbatte nel medesimo limitato linguaggio di verbi all’infinito, mescolando le due lingue:

− Io querer oro. Solo pepite di oro…

Il vecchio senza scomporsi, gli fa segno con la mano di attendere un istante ed esce accompagnato dal più giovane. Entrambi tornano alcuni minuti dopo caricando una borsa pesante colma di polvere giallognola che svuotano ai piedi dell’immigrante.

Mucho oro, amigo. Questo essere oro puro in polvere che tu portare a fondere per fare pepite e lingotti − gli dice serioso l’indio sereno in volto.

Se ne va contento, Vito, ed è tanta la felicità che lo pervade che non sente più neppure le punture delle zanzare, né gli strani rumori della selva, né i graffi dei cardi che gli lacerano il volto. Giunto alla fattoria, svuota la polvere sul tavolo di cemento, mostrando così il suo bottino mentre gonfia il petto. Ma, povero lui, invece dell’elogio atteso, risuona un rimprovero duro e senza compassione.

− Che cazzo hai combinato! − grida lo zio infuriato. – Dovevo immaginarlo che quegli indios di merda ti avrebbero dato lucciole per lanterne! Altro che oro! Quella polvere giallognola è sabbia di fiume che vale appena una pisciata di cavallo vecchio!

Vito si vergogna molto, non solo per la truffa, ma per il denaro perduto che aveva avuto in prestito con tanta fiducia dal paesano solidale. Trascorre così giornate intere a rimuginare la vendetta. Infine, in un pomeriggio caldo e soffocante, gli viene in mente di comprare decine di gingilli, cianfrusaglie e altre miniature di nessun valore: collane di perle finte, bracciali di latta colorata, anelli di ogni misura e tante altre cose. Va di corsa alla capanna del vecchio impostore e senza preamboli gli dice che è lì per vendergli quei gioielli pregiati. L’indio se li passa tra le mani, accarezza quegli accessori mai visti e decide subito di concludere l’affare.

Credendo, così, che l’italiano tonto non si fosse ancora accorto dell’inganno dell’oro in polvere, esce alla ricerca di un carico identico e glielo offre con la stessa cordialità.

− No. Basta di tanto oro − gli dice Vito senza destare alcun sospetto. − Io preferire ora le morocotas che tu avere nel sacchetto di pelle.

Il vecchio indio rimane sconcertato. Comunque, convinto che quella merce così preziosa valesse molto di più delle sue monete, gli consegna le morocotas senza nessun rammarico.

Vito ringrazia e gli fa riverenze, ma non appena raggiunge il sentiero di ritorno, stringendo forte tra le mani il sacchetto di pelle con il vero tesoro, ride e pensa che il mondo finirà quando nascerà, un giorno, qualcuno che possa far fesso un italiano.

− Se quell’italiano, poi, viene da Napoli o da zone attigue come Montesano − continua a pensare il giovane lungo il tragitto verso casa − allora è anche peggio… Dovranno trascorrere ancora molti secoli!


 

[1] La piana di Tardiano e il bosco di Petina sorgono nel salernitano, nei pressi di Montesano. Sia in questo racconto che in quelli che seguono le città, o i villaggi, che si citano, non sempre sono i luoghi di nascita dei protagonisti delle storie. Dei personaggi, poi, salvo poche eccezioni, si dà soltanto il nome proprio il quale nemmeno corrisponde sempre alla realtà.

[2]Cabito” (piccolo caporale) era il nomignolo di Cipriano Castro, militare e politico venezuelano. Sposato con Zoila Rosa Martínez, dallo stato Táchira, dove era nato, inizia una sfolgorante carriera militare che culmina prima come incaricato del potere esecutivo nel 1899, e poi come presidente della Repubblica dal 1901 al 1908. Vittima di una strana malattia del tratto urinario s’imbarca per l’Europa con lo scopo di trovare una cura a Parigi, e lascia incaricato della presidenza il generale Juan Vicente Gómez, suo compare e uomo di fiducia. Questi, però, approfittando della sua assenza, organizza un colpo di stato che non consentirà più al legittimo presidente Cipriano Castro di rientrare in patria. Muore, in effetti, in esilio a Puerto Rico nel 1924, e i suoi resti saranno rimpatriati solo nel 2003 per ordine del presidente Hugo Chávez Frias, dove ora riposano nel Pantheon Nazionale.

[3] Zaraza, in effetti, sorge nell’estremo orientale dello Stato Guárico, nella zona delle pianure omonime, a circa 500 chilometri da Caracas. Attualmente ha una popolazione stimata in poco più di 30.000 abitanti.

[4] Il Caricare o Chiguare (si legga ciguare), è il sonoro e simpatico nome di un piccolo falco della savana venezuelana. Le chenchenas (si legga cencenas), invece, sono uccelli che usano le ali come artigli e vivono nelle zone pantanose, mentre il gabán, conosciuto anche con il nome di cicogna della pianura, è un uccello portentoso dal piumaggio bianco, con la coda e le estremità delle ali di colore nero.

[5] L’araguaney è l’albero nazionale del Venezuela, caratterizzato da un tronco retto cilindrico, alto da 6 a 12 metri. Ha le foglie verdi durante quasi tutto l’anno e fiorisce prevalentemente di un giallo intenso, ma anche di altri colori, per alcuni giorni dopo le piogge di maggio.

[6] Barcelona è il capoluogo dello Stato Anzoátegui, limitrofo con lo Stato Guárico, distante circa 140 chilometri da Zaraza.

[7] La moneta nazionale del Venezuela, dalla fine dell’Ottocento, è denominata bolívar, in onore a Simón Bolívar, eroe nazionale.

[8] In Venezuela le tribù Kariña (si legga carigna) sono insediate principalmente negli stati Anzoátegui, Bolívar, Monagas e Sucre. I Pemones o Arekunas, invece, sono indigeni amerindi che hanno i loro accampamenti in Venezuela, Brasile e Guyana.

[9] Gli acebuchales (si legga asebuciales) sono alberi dalla corteccia grigiastra e liscia, con foglie sempreverdi e fiori raggruppati in grappoli, che raggiungono fino ai 10 metri di altezza.

[10] I cunaguaros sono felini simili ai gatti, lunghi tra 85 e 105 centimetri, dal pelame soave e grigio ricoperto di macchie scure allungate. Si muovono con agilità tra i rami degli alberi e si nutrono di uccelli e di piccoli mammiferi.

[11] I báquiras (si legga bachiras) sono una specie di cinghiali selvatici, assai feroci, dal muso e dalle zampe corte, che abbondano nelle zone boscose del Venezuela.

[12] Albero di oltre 18 metri di altezza, tronco retto e chioma abbondante, le cui foglie hanno riconosciute proprietà terapeutiche per diverse patologie.

[13] Moneta di origine nordamericana che circolò in Venezuela a partire dal 1830 poiché non era in vigore alcuna moneta ufficiale nel paese ed era utilizzata per gli affari di compravendita. Circolò fino alla metà del secolo scorso.