Conte, l’avvocato del popolo strapazza il capitano

Il Primo Ministro, Giuseppe Conte e Matteo Salvini durante il discoro al Senato..
Il Primo Ministro, Giuseppe Conte e Matteo Salvini durante il discoro al Senato.. ANSA/ ETTORE FERRARI

ROMA. – L’avvocato del popolo ha tirato fuori le unghie. Nel suo ultimo giorno alla guida di questo governo, il premier Giuseppe Conte ha messo da parte l’aplomb del professore che si muove con circospezione, e con i suoi toni eleganti ha picchiato duro. Quasi come un pubblico ministero che sa di aver in mano l’arringa perfetta. Sul banco un solo imputato: Matteo Salvini.

Al Senato, Conte ha accusato l’ex alleato di governo, l’ex gamba destra dell’Esecutivo, di aver provocato la crisi solo per “interessi personali e di partito”. E siccome temeva che questa accusa potesse non apparire troppo dura, che il retropensiero dell’uditorio tutto politico dell’Aula potesse essere “e chi non lo avrebbe fatto nei panni di Salvini?”, allora Conte ha rincarato: “Ti ho sentito chiedere pieni poteri e invocare le piazze a tuo sostegno, questa tua concezione mi preoccupa”.

E poi, “mostrare il rosario è simbolo di incoscienza religiosa”. E infine: il ministro dell’interno ha “rivelato scarsa responsabilità istituzionale e grave carenza di cultura costituzionale”. Insomma, lui che è professore, gli ha dato dell’ignorante.

L’evoluzione di Conte e le prime prese di distanza dall’alleato ingombrante hanno cominciato a manifestarsi proprio in Parlamento, quando il premier è andato a parlare dei presunti fondi russi alla Lega. Lo ha fatto Conte e la sua sola presenza in Aula ha rimarcato il fatto che non lo stava facendo Salvini, l’uomo onnipresente sui social e nelle piazze.

Il premier glielo ha rinfacciato anche nel suo ultimo discorso: “Dovevi venire tu”. Eppure, Conte era arrivato a Roma in sordina. Lui, senza un partito e senza voti alle spalle, era entrato a Palazzo Chigi grazie all’indicazione dei Cinque Stelle, ma col benestare della Lega.

Sapeva che doveva barcamenarsi fra alleati litigiosi, che doveva essere premier di due vice ingombranti, che avrebbe dovuto mediare, limare, smussare. Per questo ha tenuto un profilo istituzionale. Ma non ha mancato di farsi sentire quando ha ritenuto che ce ne fosse bisogno.

In fondo, la svolta decisiva l’ha fatta lui, quando ha detto “sì” alla Tav, aprendo di fatto la frattura ‘letale’ per il governo. Qualche tempo prima, Conte aveva convocato una conferenza stampa per dire che lui non ci stava a vivacchiare, che Lega e Cinque Stelle dovevano smettere di litigare, di insultarsi. Che dovevano mettersi d’accordo: o trovavano una intesa seria e decidevano che il governo sarebbe andato avanti senza esitazioni, o lui ne avrebbe tratto le conseguenze.

Era l’inizio di giugno. C’è voluto del tempo. C’è voluto un duro scontro in Senato sulla tav. C’è voluta una mozione di sfiducia della Lega. Poi Conte ha tratto le conseguenze.

(di Giampaolo Grassi/ANSA)