Italiani mata burros!

Cuidemos nuestros burros: salviamo i nostri asini.
Cuidemos nuestros burros: salviamo i nostri asini.

Giose osa andare da solo alla bottega di di don João, nella esquina de El Rosario[2], a fare per la prima volta la spesa da quando è arrivato nel nuovo mondo, dove aspira a trasformare in realtà i sogni che custodisce celati nella sua anima rigonfia di speranze. Certo, i paesani, che abitano con lui nella piccola pensione accanto al Cinema La Vega, gli avevano ripetuto varie volte, affinché imparasse, i nomi in spagnolo degli oggetti e dei cibi più comuni.

− La “mela”, qui, si chiama manzana − era solito istruirlo, soprattutto, il cugino Federico che già da un paio d’anni viveva nella bella Caracas. − Si scrive con la “zeta”, ma si pronuncia “esse”. Tomates sono, invece, i “pomodori”, mentre al “prezzemolo” gli dicono perejil. Un po’ difficile da pronunciare quella “jey” che non esiste in italiano, ma non preoccuparti, perché non la dicono bene neanche quelli che sono da molti anni in questa terra benedetta, generosa come il buon samaritano che bendò le ferite del pover’uomo caduto tra le grinfie del ladro malfattore.

E così Giose impara pian pianino, annotando su un’agendina dalla copertina nera le parole che gli insegnano i suoi amici e altre che ascolta dalle conversazioni per strada quando già quasi al tramonto, dopo il duro lavoro arrampicato sulle alte impalcature delle Torri de El Silencio[3], trascorre il tempo seduto su un muretto vicino alla pensione guardando le muchachas che passano mostrando le ben tornite tette color dell’ebano che ballano libere da reggiseni nelle bianche camicette sbottonate quasi fino all’ombelico.

Don João, il portoghese, conosce già il giovane che ha visto varie volte in compagnia dei suoi amici, anche loro clienti del negozio. Per questo, lo riceve con parole assai affettuose.

Hola italianito − gli dice. − Come va il tuo lavoro, là nelle Torri, le cui terrazze al crepuscolo già cominciano a occultarsi tra le nuvole che regolarmente scendono da El Ávila[4], la montagna misteriosa di Cabré[5]? Che gioia, un giorno, quando i nipoti guarderanno verso il cielo, poter raccontare loro che tra l’acciaio, e il cemento, e il calcestruzzo di quel gigante che vigila la valle, sono sepolte anche le gocce di sudore che dalla tua fronte cadono, ora, come la rugiada sulle foglie fresche dell’aurora. Benedette siano le braccia e quelle tue mani callose che aiutano a forgiare il futuro di questa patria che a breve si riempirà di cognomi strani. Ma su, amico, dimmi, come posso servirti?

Giose guarda fisso negli occhi il commerciante, facendogli capire, dallo stupore disegnato sul suo volto, che non aveva colto neanche una virgola del riferimento poetico alla sua epopea. Invece, l’ultima domanda la capta perfettamente, tant’è che subito risponde nel suo spagnolo di appena poche paroline:

− Dammi, por favor, un chilo di tomates, spaghetti di marca “Torresina”[6] e un pezzo di burro senza sale.

Oh, Dio mio onnipotente! Ora più confuso che mai è don João. È lui a non capire, adesso, che cose strane mangia l’italiano e per quale motivo le cerca in un negozio di generi alimentari. Ad ogni modo, pensa tra sé parecchio sconcertato, se nel suo paese natio c’è l’usanza di tali cibarie che qui non si concepiscono, dovrebbe sapere che sarebbe appropriato richiederle altrove. Comunque, per non scendere nei dettagli col giovane, il quale, inoltre, farebbe fatica a capire il suo discorso, si limita a dirgli:

− Mi dispiace, amico mio. Non vendo burro. Tutto il resto, eccolo qua. Sono un bolívar e quattro puyas[7].

Nel locale, per sfortuna del povero immigrante, è presente anche un giovanotto, un robusto negretto dai capelli crespi. In realtà, non interviene durante il soliloquio di don João, e nemmeno quando Giose fa l’ordine della merce con la conseguente risposta tagliente del vecchio commerciante. Si nota, tuttavia, sul suo volto scuro e liscio come il marmo, un ghigno di ribrezzo misto a un sorrisetto ironico con il quale conferma la convinzione, già generalizzata nel paese, che questa gente, venuta da lontano, ha lo stomaco abituato ad assai ignobili pietanze per ammazzare la fame. Non trovano modo ora di disfarsi di questa condotta, che qui non ha senso di esistere – pensa − poiché abbondano a bizzeffe carne di vitello, pesce per tutti i gusti e verdure deliziose. Così, non appena esce dal negozio e si ritrova con i suoi amici che lo aspettano dall’altra parte del marciapiedi giocando con una palla di gomma che con grande destrezza si lanciano gli uni agli altri afferrandola con strani guanti per non farsi male alle mani, grida come un forsennato, accompagnando le parole con una risata impressionante:

− Non ho più dubbi! È tutto chiaro! Luis aveva ragione quando ci raccontava di questi stronzi musiú[8] a caccia degli asinelli che vanno liberi per le praterie di Coro[9]. Che schifosi! Nei loro paesi d’origine li vendono dappertutto: nei mercati, nelle fiere pubbliche e perfino nei negozi di generi alimentari. Come faccio a saperlo? Beh, ho appena assistito alla prova inconfutabile da don João.

Racconta con lusso di dettagli ciò che ha sentito e indica il giovane che passa con un sacchetto di pomodori e altre cose in mano, come il protagonista di quella riprovevole vicenda. Senza dirsi ciò che dovevano fare tutti insieme, spinti solo dall’intuito, si avventano come dannati contro quel poveretto che, pacatamente, si dirige verso casa, e lo accerchiano lanciandogli improperi che lo lasciano interdetto:

− Italiano morto di fame, mangia la tua merda se ti piace tanto, ma lascia in pace i nostri poveri burritos sabaneros[10]. Italiano mata burros, credi di poter fare qui ciò che vuoi? In questa terra si rispettano gli animaletti inoffensivi!

Giose non capisce. Pensa, anzi, che la banda che gli urla contro sia lì per rubargli la misera spesa, perciò la affronta chiudendo i grossi pugni davanti alla sua faccia come fa il pugile quando si mette in guardia per poi sferrare il montante del ko. I giovanotti, al vederlo pronto per il combattimento e, valutando, inoltre, che non avrebbero avuto la meglio con lui, nonostante fossero tre contro uno, poiché l’italiano ha stampato in faccia la furia di cinque forti lottatori, scappano come le lepri quando sono rincorse da un segugio. Corrono finché possono per i labirinti del barrio Paraparos[11], giurando vendetta, non tanto per l’affronto causato dalla fuga vigliacca, ma per l’amato animaletto, lo stesso che nel presepe, pensano, riscalda Gesù Bambino nella grotta.

− Che ti prende? − chiedono gli amici a Giose quando arriva a casa e lo vedono così agitato.

− È che mi hanno aggredito senza motivo tre bellimbusti, gridandomi contro cose che non ho capito − risponde lui infuriato, ancora con i pugni chiusi in segno di sfida.

Già più calmo, decide, infine, di preparare la cena per tutti, e informa inorgoglito che è andato da solo a fare la spesa.

− Volevo farvi una sorpresa − dice. − Prepararvi una pasta al burro con i funghi secchi a pezzetti che ho ancora nel barattolo di vetro portato da Santa Croce. Peccato che don João non avesse l’ingrediente. L’ho fatta lo stesso con prezzemolo e sugo di pomodoro.

Appena Giose chiude la bocca e si dirige verso la cucina per mettersi all’opera, al cugino Federico viene il dubbio e gli chiede con un pizzico d’ironia nelle parole:

− Dimmi una cosa. Tu hai chiesto il burro, così, al portoghese?

− Certo − risponde senza esitare. − Mi ha detto che non vende burro nel suo negozio, anche se mi è parso di averlo visto esposto nel bancone, insieme a mozzarelle, formaggi di ogni tipo e salsicciotti. Non ho insistito, altrimenti mi sarei dovuto cimentare in una conversazione che ancora non sono in grado di gestire, ma sono sicuro che mi ha mentito e non capisco il motivo. Per giunta, anche la faccia che ha fatto nel negarmi il prodotto non mi è parsa normale… Inoltre, gli stessi giovanotti che mi hanno aggredito gridavano cose del tipo matto burro, o come burro, o giù di lì. Mi sono anche chiesto che cosa c’entrasse un “matto” con il “burro”. Insomma, non ci capisco più nulla, sono confuso. Proprio come un camaleonte in una vasca di coriandoli. Federico ha già capito tutto. È scomparsa ogni incertezza sul suo volto annerito, bruciato dal sole. Perciò conclude così:

− Povero te, che confusione tremenda! Ora hai una torre di Babele in testa, un chilo di stoppa difficile da sapere dove inizia il capo e qual è la coda. Il “burro” che cercavi al negozio si chiama mantequilla in castigliano. Invece, quella stessa parola dell’italiano, scritta e pronunciata esattamente uguale, significa “asino” in questa terra e in altre dove si parla lo spagnolo. Per questo, sicuramente, si sarà meravigliato don João quando insieme ai pomodori, hai chiesto anche il burro. Allo stesso modo potrai capire ora la derisione dei giovanotti quando ti urlavano dietro che sei un italiano mata burro, vale a dire “che sacrifica, che sgozza l’asino” per mangiarselo. In altre parole, loro hanno pensato che se qualcuno cerca il burro in un negozio di generi alimentari è perché chi lo chiede se lo mangia. E se qualcuno lo mangia, ci saranno altri che l’ammazzano…

Gli amici, tutti insieme, scoppiano in una fragorosa risata senza sapere che, per questa ambiguità semantica, agli italiani in tutto il Venezuela viene data la colpa della scomparsa degli asinelli che, stranamente, in altri tempi, vagavano sempre sciolti in mandrie per le belle praterie ricche di erbe profumate.


[1] mata burros alla lettera significa “ammazza asini”. <burro> è un falso amico italiano-spagnolo. Infatti, mentre in italiano questo termine connota il grasso alimentare ricavato dalla lavorazione delle creme di latte vaccino, in spagnolo è sinonimo di “asino”. Questa storia racconta una vicenda di pregiudizio culturale legata al transfer lessicale di questo termine.

[2] esquina (si legga eschina) vuol dire “angolo”. Caracas rappresenta l’unica città al mondo con toponomastica per gli angoli delle strade; i suoi abitanti ne hanno assegnato nomi originali che risalgono sin dall’epoca coloniale: questi hanno origine da fatti importanti accaduti in quei luoghi, personaggi o credenze. Nonostante i vari tentativi delle amministrazioni regionali e locali di sostituire quei nomi con numeri, gli abitanti continuano ad usarli. In una zona abbastanza centrale di Caracas, appartenente alla Parrocchia La Vega, c’è appunto la Esquina de El Rosario.

[3] Si tratta di due torri gemelle di 32 piani alte 103 metri e costruite, in gran parte, da ingegneri e manovalanza italiana durante il governo di Marcos Pérez Jiménez negli anni Cinquanta. Furono aperte al pubblico il 6 dicembre 1954. Ubicate nel quartiere El Silencio, in pieno centro della città, le Torri rappresentano l’emblema della città moderna.

[4] Il Parco Nazionale El Ávila (dal 2011, Parco Nazionale Waraira Repano) è una formazione montuosa considerata emblema e polmone vegetale della città di Caracas. In esso, si possono realizzare diverse attività per essere una delle principali attrazioni della capitale, in alture che vanno dai 120 ai 2765 metri sul livello del mare (Pico Naiguatá).

[5] Manuel Cabré (Barcellona, Spagna, 25 gennaio 1890 – Caracas, 26 febbraio 1984) è stato un paesaggista ispano-venezuelano. Direttore del Museo de Bellas Artes di Caracas, Cabré, innamorato del paesaggio venezuelano, era attratto da El Ávila e l’ha dipinto da ogni angolo e prospettiva e con tutte le sfumature, tanto da essere riconosciuto come “il pittore de El Ávila”.

[6] “Pasta Torresina” era la marca di un pastificio, ora scomparso, fondato nel 1952 da Giuseppe Castelli, originario di Santa Croce di Magliano (CB) e padre dello scrittore, così denominata in riferimento alla Torre di Magliano, rudere medievale e simbolo del suo paese natio.

[7] La puya (si legga puia) era il nome popolare dato a una moneta, ufficialmente centavo (si legga sentabo), il cui valore equivaleva a 5 centesimi di bolívar. Oltre alla puya, si ricordano la locha (si legga, locia) dal valore di 12 centesimi e mezzo, il medio dal valore di 25 centesimi e il real, dal valore di 50 centesimi. Emblemi della speculazione vigente, queste monete sono rimaste in circolazione, quale più quale meno, fino agli inizi degli anni Novanta.

[8] Per musiú, vedere Nota 7, Cap. II.

[9] Coro è la capitale dello stato Falcón, all’occidente del paese. Bellissima cittadina coloniale, era anche rinomata per gli asinelli che pascolavano in libertà, senza padroni, per le praterie dei dintorni, protetti quasi con venerazione dai contadini del luogo insieme ai capretti. Gli asini sono ora in via di estinzione, al contrario dei caprini dalle carni pregevoli, che negli ultimi decenni quegli stessi abitanti hanno imparato ad allevare per il macello.

[10] Sono detti così gli asinelli che abitano nella savana venezuelana e in particolare nelle praterie dello Stato Falcón. Esiste anche un canto natalizio intitolato Mi burrito sabanero scritto dal celebre compositore venezuelano Hugo Blanco alla fine degli anni Settanta e portato al successo da Topo Gigio, Simón Díaz e La Rondallita, un gruppo di voci del Coro Infantil Venezuela.

[11] Un altro quartiere popolare alle spalle del più conosciuto La Vega, rinomato negli anni Cinquanta per le sue case coloniali, oggi piuttosto deturpate.

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