I figli dell’Isis, nei campi profughi in Siria altri italiani

In questa foto Alvin, un bambino di 11 anni, accompagnato da funzionari della Croce Rossa, riscattato da un campo profughi in Siria.
In questa foto Alvin, un bambino di 11 anni, accompagnato da funzionari della Croce Rossa, riscattato da un campo profughi in Siria. (Photo via AP)

ROMA. – La Croce Rossa internazionale parla di 28mila bambini di oltre 60 paesi, piccoli senza colpe trascinati da padri e madri nell’inferno siriano: sono i figli dell’Isis che dopo il disfacimento dello Stato Islamico vivono nei campi profughi dove sono detenuti i combattenti sopravvissuti e le loro mogli.

L’undicenne albanese nato a Lecco era uno di loro ed ora che è al sicuro in ambasciata a Beirut l’attenzione di chi è riuscito a portarlo via da quell’orrore si concentra sugli altri piccoli ancora sparsi tra i campi di Al Hol, Heyn Issa e Roj. Perché gli italiani figli del jihad sono almeno altri 7.

Su tre di loro, in particolare, è concentrata l’attenzione del Ros e della procura di Milano: sono i figli di Alice Brignoli e Mohammed Koraichi, lei italiana lui marocchino con cittadinanza italiana che hanno lasciato Bulciago in provincia di Lecco per unirsi all’Isis nel 2015. Entrambi si trovano nel campo di Al Hol.

“Stiamo svolgendo una serie di attività già messe in atto per l’11enne per cercare di riportarli in Italia in modo che possano essere portati a giudizio – dice una fonte qualificata – per i bambini dovrà esserci un’attenzione particolare da parte del mondo civile, per capire come reinserirli nella società e dar loro un futuro diverso”.

I foreign fighters italiani o legati all’Italia partiti per i teatri di guerra – stando ai dati di Antiterrorismo e Procura nazionale antimafia ed antiterrorismo – sono circa 140, 25 dei quali italiani o naturalizzati italiani. 50 sarebbero morti (4 italiani o naturalizzati) mentre altri 8 sono rientrati in Europa e sono monitorati costantemente.

Nei campi in Siria ce ne sarebbero cinque: e oltre ad Alice e suo marito altre due sono donne. Si tratta di Sonia Khediri, italo-tunisina che viveva nel trevigiano, partita per la Siria nel 2014 a 17 anni e moglie di Abu Hamza al Abidi – un pezzo grosso di Daesh ucciso in combattimento – e di Meriem Rehaily, 23enne padovana di origine marocchina che ha una condanna per arruolamento con finalità di terrorismo. Entrambe avrebbero due figli ed entrambe hanno fatto sapere di voler tornare.

“Meriem si è pentita – ha detto il padre in un’intervista alla Tgr del Veneto meno di un mese fa – Ha sbagliato ed è pronta a pagare per gli errori che ha fatto. Ma i bambini devono poter andare a scuola. Hanno paura e se li facciamo crescere lì facciamo un grande errore”.

Lei stessa, in un’intervista del giugno 2018 a Fausto Biloslavo che l’ha incontrata a Camp Roj, diceva di essersi pentita. Suo figlio più grande ha quasi 3 anni, il piccolo 20 mesi. “Mi hanno fatto il lavaggio del cervello ma quando sono arrivata qui ho visto la realtà dell’Isis e ho capito che avevo sbagliato. Non ho fatto nulla né in Italia né in Siria ma ormai è tardi e se vado in carcere va bene, ma almeno rivedo mia madre”.

Anche Sonia vuole tornare. Lei, almeno fino ad un anno fa, era nel campo di Heyn Issa, con i suoi due bambini di 3 anni e 4 mesi, dopo che il marito era stato ucciso con un drone e lei fatta prigioniera. “Ho perso la mia vita quando sono entrata in Daesh e ora sono qui prigioniera – ha raccontato sempre a Biloslavo – Quando mi hanno parlato di Daesh ho immaginato qualcosa di più grande di quello che ho visto e dunque l’ho amato senza vederlo. Voglio tornare, ma ho paura di rimanere in carcere e non vedere più i miei bambini”.

Che il futuro di quei bambini, di tutti e 28mila, sia un grande problema da affrontare per le democrazie occidentali, ne è ben consapevole il presidente della Croce Rossa internazionale e di quella italiana Francesco Rocca, che al confine tra Siria e Libano ha accolto l’undicenne.

“I governi dei paesi degli stranieri presenti nei campi in Siria devono agire per alleviare la sofferenza di queste persone vulnerabili. Siamo consapevoli della complessità della situazione e delle preoccupazioni legittime – dice – ma questi timori devono essere bilanciati con la necessità di trattare le persone umanamente”.

(di Matteo Guidelli/ANSA)

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