Storia d’amore

Matrimoni: due sposi mano nella mano.
Matrimoni: due sposi mano nella mano.

Anni Cinquanta, Teramo d’Abruzzo. È strenua la lotta tra i ricchi possidenti terrieri, contrari a mollare i privilegi e le nuove avanguardie contadine in formazione. Nessuno si salva dall’impeto degli uni contro gli altri al punto da confondere i piccoli proprietari, che a fatica raccolgono le loro misere semine, con i “signorotti” che si recano nei campi una volta all’anno per portarsi via il frutto delle terre. È ciò che accade al padre di Donato: una sera d’autunno, di nuvole nere che occultano il firmamento, danno fuoco alla sua modesta fattoria e gli rubano cavalli, buoi, pecore e altri animali che rappresentavano la sua unica fonte di ricchezza tangibile ed anche ciò a lui più sacro dopo la copiosa famiglia.

Donato è tenuto all’oscuro di tutto nei giorni successivi all’accaduto, poiché studia in seminario, in una città vicina, con l’illusione della madre che un giorno Dio le voglia regalare un sacerdote. Vana illusione. Le cose vanno come sono stabilite e non in base a come uno le programma. Perché lo dico? Lo dico perché l’anima eterea, nascosta in qualche angolo remoto del corpo, usa gli occhi per esplorare fuori, e gli occhi, come le farfalle, si posano sempre sui fiori più belli e maggiormente profumati. Gli occhi di Donato si posano, infatti, sui ricci di una bella fanciulla che tutte le domeniche si siede, insieme con la madre, allo stesso banco della navata sinistra per assistere alla santa messa nel tempio sacro dei Cappuccini. Tra uno sguardo e l’altro si dichiarano l’amore, un amore platonico, puro come l’aria del bosco inesplorato. Che sofferenza, poi, il giorno in cui il padre si presenta in collegio per dirgli queste parole amare che gli trafiggono l’anima, più per doversi allontanare dagli occhi della bella fanciulla che per abbandonare il luogo di raccolta spirituale che ormai poco gli interessa:

− Figlio mio, mi dispiace, devi tornare a casa. Alcuni vandali mi hanno ridotto in miseria e non ho più i soldi per mantenerti qui, nel seminario.

Donato, prossimo alla maggiore età, non dice una parola. Si limita ad abbracciare affettuosamente il padre e, mentre prepara, nella camera che condivide con altri tre ragazzi, la valigia con le quattro cose che possiede, riesce a sussurrare all’orecchio di Mario, il monachello amico con il quale si lascia, a volte, andare alle confidenze, questo messaggio per l’aggraziata fanciulla dai capelli ricci e dai grandi occhi dal color delle castagne:

− Ti prego di dirle, per favore, quanto la amo. Non so quale sarà il mio destino d’ora in avanti, ma sono sicuro che un giorno tornerò per lei, anche se dovessi affrontare le più grandi peripezie, o mi toccasse superare qualunque ostacolo che la vita mi riservi.

Una volta in casa, di fronte alla terribile realtà che non ammette ulteriori piagnistei − poiché molte lacrime sono state già versate dalla madre e dai figli più piccoli − ma che esige, invece, sangue freddo per affrontare la disgrazia piombata sull’intera famiglia, viene presa la decisione che mai e poi mai, settimane prima, sarebbe venuta in mente al padre:

− Donato, tocca a te cercare fortuna fuori da queste mura che è l’unica cosa che ci rimane. Bisognerà andare a tentarla aldilà del mare dove la pelle si brucia sotto i raggi furiosi del sole incandescente. Ho sentito dire che in Venezuela – un paese con pochi abitanti in un territorio tre volte la nostra Italia, ormai satura di gente come formiche attorno a dolci coperti di miele di castagno − è facile farsi strada quando ad arrivarvi è una persona con buona formazione e di sani principi come i tuoi che non hanno pari. Non ti preoccupare per me, né per tua madre. Il nostro destino è segnato perché siamo sulla soglia dell’età in cui si prende cura di noi la legge della morte che è uguale per tutti, incluso per coloro che commettono mascalzonate in nome di questa Repubblica nascente. Ti chiedo, invece, di prenderti cura dei tuoi fratelli e di proteggerli quando ti raggiungeranno nel nuovo mondo dove, ovviamente, apporteranno il proprio contributo affinché possano anche loro farsi strada. Partirai domani stesso all’alba, portando con te come unico tesoro la mia benedizione e quella di tua madre, che ti accompagnerà sempre come l’ombra quando il sole riflette sul corpo i suoi raggi caldi fino al tramonto.

− D’accordo − azzarda a replicare Donato. − Tu, però, non mi hai ancora detto perché non accetti quella fanciulla che con il solo sguardo ha conquistato il mio cuore innamorato.

Il padre non risponde, si limita ad osservare, distratto, con il pensiero altrove, le stelle della notte che brillano nel cielo come le palline che decorano i pini quando nasce Gesù Bambino a dicembre di ogni anno.

A Caracas, la vita è dura per un giovanotto a cui ancora non cresce neppure la barba completa sul volto di porcellana. Per cominciare, qualsiasi occupazione va bene purché non manchi il pane. Col passare del tempo, però, le cose cambiano. Si improvvisa fabbro. Quando sta per sfiorare l’età dei trenta, l’officina − che nell’insegna ha il logo di un libro aperto sul quale campeggiano un incudine e il martello − diventa fiorente e gli consente di acquistare una casa propria. Eppure, porta una pena nel cuore ferito che gli stampa fisso sul volto un’aria che contrasta con l’apparente aspetto di una persona allegra. Pensa sempre a quella bella fanciulla e al suo sguardo quando lui aiutava con l’incensiere il frate che benediva l’altare nella chiesetta dei Cappuccini. E non sarà più nemmeno una bambina adesso – immagina − perché saranno passati gli anni anche per lei. In effetti, il giorno che riceve una foto di Rita, bella come il sole quando l’orizzonte comincia a spuntare preceduto dai molteplici fasci colorati, si accendono in lui nuovi desideri difficili da smorzare: non è possibile con la schiuma né con l’acqua dei pompieri, né tanto meno con il silenzio misterioso del padre che continua a deviare il discorso ogniqualvolta Donato gli insinua il desiderio di andare a prenderla, perché lei ha deciso di aspettarlo nonostante la schiera dei corteggiatori. Così, una domenica, buttato sul letto, preso dalla nostalgia che mai risparmia le lacrime dell’immigrato innamorato, dopo aver riflettuto a lungo sulle parole, con lo sguardo fisso sul soffitto che ai suoi occhi diviene lo schermo di tutti gli eventi del passato, prende matita e foglio deciso a scrivere questa lettera al progenitore che, come una quercia, continua l’esistenza imperturbata nella sua casa centenaria:

“Caro papà, oggi ti scrivo non più come il bambino che tu sempre hai voluto proteggere, prendendo decisioni al posto suo, ma come l’uomo che è già passato per alcune vicissitudini della vita che l’hanno forgiato, proprio come le tue rispettabili esperienze hanno fatto con te. Sono riuscito, in questo Venezuela che premia sempre il lavoratore tenace e serio, a consolidare una posizione stabile che mi rende indipendente e solido per il futuro che sarà ancora glorioso. Perciò, ora, penso sia giunto il momento di farmi una famiglia e tu sai già chi voglio come madre dei miei figli. Perché non ti pronunci quando metto in mezzo il discorso? Forse chi nasce povero non ha il diritto di rovesciare la sua sorte? Ora come ora, padre, il matrimonio non è più un contratto dove a prevalere, affinché si stipuli, è la dote che possiedo io e quella che porta lei. No. Oggi il matrimonio si contrae solo per amore, te lo assicuro. Perdona il mio ardire nel dirti queste cose che non potevo più tenere in serbo nel mio cuore. L’amore di figlio non s’è alterato per niente, voglio che tu lo sappia. Per questo, ti chiedo che sia tu, e nessun altro, a condurre all’altare la sposa, poiché ho deciso di sposarmi per procura. Ti supplico, padre, soddisfa questo mio unico desiderio come ricompensa di tutti gli aneli che ho compiuto per renderti felice. In attesa di ricevere una tua risposta, ti mando un bacio e un abbraccio grandi come l’universo le cui dimensioni non hanno limiti. Tuo figlio Donato che ti vuole bene”.

Non è mai giunta la risposta tanto aspettata.

È il padre di lei, alla fine, a portarla all’altare il giorno delle nozze.

Quando la sposa arriva in Venezuela, Donato organizza una festa nella sua villa. Non manca nulla: raffinate leccornie, orchestra che promette suonare musica criolla[1], ma anche canzoni melodiche di interpreti in voga nell’Italia dell’epoca. La festa comincia con il valzer di Strauss. Rita appare come il bocciolo di una rosa che comincia a schiudersi, avvolta nel suo abito bianco a forma di campana. È bella. Come la Venere che spunta dalla conchiglia spinta dal vento e approda a riva. Proprio quando viene annunciato il cambio di coppia, com’è solito farsi durante il valzer, nella sala compare Antonio, il padre di Donato, all’insaputa di tutti i presenti che non sapevano fosse giunto da Teramo. Si dirige verso la sposa, le prende la mano e senza togliere lo sguardo dai suoi occhi, danzano insieme finché l’orchestra suona l’ultima nota. Poi, in mezzo allo stupore di tutti per quella sorpresa, si ferma al centro della sala e dice, semplicemente: “Figlio, sono venuto a benedire le nozze con le quali oggi incoroni la tua meravigliosa storia d’amore”. Tutto qui, nient’altro. Donato gli si avvicina e rimangono a lungo, il padre pentito e il figlio che lo perdona, in un abbraccio stretto finché in entrambi non cessa l’ultima goccia negli occhi gonfi e lacrimanti.

Riprende a suonare l’orchestra e la festa si prolunga ininterrotta fino all’alba. Fino a che il sole scintillante, dietro a El Ávila d’incanto, comincia a tingere di rosso lo splendido cielo azzurro di Caracas.


[1] Diversi stili di musica tradizionale venezuelana, come salsa e merengue, sono comuni anche ai suoi vicini dei Caraibi. La musica proprio tipica, invece, è lo joropo (si legga ‘horopo’), una forma rurale originaria degli Llanos (‘pianure’, si legga ‘glianos’).