Corongiú: “Le lingue regionali sono ricchezza e diversità”

MADRID –Sebbene tutti siano d’accordo nel considerare necessaria l’attuazione di politiche che permettano la loro conservazione, non tutti lo sono nel ritenerle “lingue regionali”. Non è semplicemente una questione di semantica. Il dibattito sull’importanza dei dialetti/lingue torna periodicamente sulla scena nazionale, con maggior o minor forza.  E nei salotti culturali è motivo anche di accese discussioni.

Giuseppe Corongiù, scrittore e sardo doc, è uno dei paladini della lingua della sua regione. Considera che ha profonde radici e una lunga tradizione. E, quando ci riferiamo ad essa come “dialetto”, ci corregge immediatamente sottolineando che, seppur regionale, resta sempre una lingua.

Corongiú lo incontriamo poco prima della presentazione del suo libro, “Metropolitània e àteros cantos tòpicos, distópicos e utópicos”. La manifestazione culturale è organizzata dal Circolo Sardo Ichnusa di Madrid, che presiede Gianni Garbati.

– Che importanza attribuisce al dialetto sardo?

Più che una domanda, la nostra, vuole essere una provocazione, visto che Corongiù scrive in sardo.

– Una importanza rilevante – afferma categorico -. Gli italiani forse non sono tanto informati, ma esiste una legge del 1999, la numero 482, che riconosce ben 12 lingue regionali presenti nel territorio della Repubblica. Sottolineo: riconosciute e legittimate. Non tutte le politiche linguistiche sono efficaci ma questo è stato senza dubbio un segnale di rinnovamento.

Sostiene convinto che “le lingue regionali sono importanti per i popoli che ne hanno coscienza e le mandano avanti”.

– Così – spiega – anche i dialetti. La differenza tra questi e le lingue regionali è solo politica, non sostanziale. Senza di esse, nei territori verrebbe a mancare qualcosa… di ricchezza e di diversità. C’è un’eco-biologia, una ecologia anche delle lingue.

– Nell’ambito culturale in Italia che importanza si attribuisce alle lingue regionali e ai dialetti?

– Diciamo che non esiste un comportamento generale – spiega -. Ogni situazione è diversa sia per sensibilità politica, sia per politiche sociali. Una cosa è la situazione del tedesco nell’Alto Adige, dello sloveno nel Friuli o del francese nella Valle d’Aosta e un’altra è la situazione del sardo, del friulano o del provenzale. Tutte sono minoranze presenti in Italia ma tutte hanno problematiche diverse. Le lingue frontaliere sono state tutelate già all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. L’Italia, come potenza sconfitta, ne fu costretta.

Parla con passione. A volte è un fiume in piena. Stenta a controllare il proprio entusiasmo.

– Secondo me – prosegue – non bisogna avere paura della diversità. Prendiamo, ad esempio, il sardo. È una lingua che esiste da mille anni. Esisteva ancor prima dell’unità d’Italia. C’era prima, c’è oggi e vuole continuare ad esserci domani. Non è detto che sostenere la propria lingua regionale voglia dire andare contro l’unità d’Italia, anche se c’è chi opina in questo senso.

– È vero, però, che l’Italia si è costruita anche attraverso l’affermazione dell’italiano come unità linguistica.

– La lingua è una ricchezza in più che bisogna saper utilizzare… – insiste.

– Quanti in Sardegna conoscono il proprio dialetto?

 

 

– Lingua – ci corregge -. Parliamo di lingua…

– Sì, va bene, ma quanti la conoscono?

– Secondo gli ultimi dati, che risalgono al 2007 – spiega -, il 67 per cento dei sardi. Da un’inchiesta che fece la Regione Sardegna con le due Università sarde, appunto nel 2007, emerge che, per quanto riguarda la conoscenza attiva della lingua, siamo sul 67 per cento. Attorno al 30 per cento, invece, sulla conoscenza passiva. Il resto ha dichiarato di non capire e di non conoscere.

Ma subito tiene a precisare che “la situazione sarda è un po’ più complessa”. Commenta:

– Non c’è solamente la lingua sarda. Sono presenti anche altre. Abbiamo la catalana ad Alghero; a Carloforte Calasetta un dialetto di stampo ligure; e poi nel Nord altri idiomi di tipo sardo-corso collegati a alla lingua in Corsica. Quindi il panorama è molto variegato e complesso. Poi, all’interno della lingua sarda, ovviamente ci sono i vari dialetti… un dialetto per ogni municipio. Ma è normale.

– C’è chi studia alle origini la lingua sarda o semplicemente ci si lascia portare dall’evoluzione della lingua?

– Ci sono ambedue le cose. Ed è giusto che sia così.

– All’estero spesso il dialetto, o la lingua regionale, restano ancorati al passato. Non si evolvono come in Italia. Capita, quindi, che l’emigrato, quando torna nella sua regione, non riesce a comunicare. E’ convinto di parlare il suo dialetto, come lo è l’abitante del luogo, ma stentano a capirsi…

– L’emigrato va via e porta con sé una lingua che resta a livello della giovinezza, ferma al momento di quando lui è andato via – ammette Corangiù -. Le lingue sono mobili. Quindi in continua evoluzione. Accade anche per il sardo. I corregionali che vanno più lontano e tornano dopo 30 anni si trovano con una lingua che si è evoluta. Comunque – precisa -, le ricerche non hanno confermato tanto questa impressione. Diciamo che è una percezione che noi abbiamo ancora non confortata da dati scientifici. In realtà, anche la lingua dell’emigrato cambia. Ma lo fa in altre direzioni perché si confronta con altre lingue.

– La lingua scritta che evoluzione ha avuto? Non è che sia facile trovare un romanzo o un libro di poesie in abruzzese, in piemontese o in pugliese. Insomma, in dialetto…

– Nel caso del sardo – commenta – abbiamo una tradizione letteraria molto antica e anche molto ricca. I primi documenti scritti risalgono attorno all’anno mille. Sono dei testi di carattere giuridico. Poi via via c’è stata una produzione di testi legati alla ufficialità. Il sardo è stato anche la lingua ufficiale del Regno.

Racconta che “nel 1500 si è sviluppata una vera e propria letteratura scritta, quindi con autori di poesia e di prosa, che è continuata fino ai giorni nostri, con alti e bassi”.

– Oggi il sardo – insiste – è una lingua che ha una importante produzione letteraria anche se ha cominciato a perdere terreno. E questo va detto. Si parla sempre di meno, nelle case si trasmette sempre di meno. C’è una politica linguistica che tende a salvarla ma ancora non abbiamo la forza che vorremmo. Non è previsto l’insegnamento bilingue in Sardegna anche se ci sono dei tentativi episodici di portarla nelle scuole.

– In quanto ai documenti ufficiali, esiste un tentativo di obbligare a scrivere in lingua sarda?

– C’è stata una sperimentazione in particolare attorno agli anni 2005, 2006, 2007.  Io in quel periodo dirigevo il Servizio Linguistico regionale. Quindi l’ho vissuto in prima persona. È stata elaborata una ortografia, un testo di riferimento che si chiama “Limba sarda Comuna”. Una lingua scritta unitaria. E si sono prodotti anche documenti scritti ufficiali della Regione. Ancora oggi il logo ufficiale della regione porta l’iscrizione bilingue, sia in sardo sia in italiano. Però anche lì, come nella scuola, non siamo riusciti ad arrivare ad una perfetta efficienza. La popolazione non è tanto convinta. Non lo è soprattutto la classe politica.

– La popolazione non è convinta perché non preparata?

– Non è stata educata dalle classi dirigenti.

– Lei è stato parte della classe dirigente.

– Si… chiaro… non voglio accusare nessuno… quando si sbaglia, si sbaglia in tanti. Anch’io – ammette – avrò la mia parte di responsabilità. Però è anche vero che l’identità di un popolo non nasce, viene costruita… e questa costruzione non è andata avanti come doveva.

– Si sente più a suo agio nello scrivere in italiano o in sardo?

– In  sardo – ci dice -. Lo padroneggio meglio, non che l’Italiano non lo conosca… però pensavo di poter essere più originale e di poter dare un contributo in sardo e quindi ho deciso di usarlo come lingua letteraria. Mi riesce meglio…

– Lei scrive in sardo, come fece Camilleri con il siciliano…

Non ci fa completare la frase. Immediatamente. Mette i punti sulle “i”. Precisa:

– Camilleri mischiava il siciliano con l’italiano. Questo non è il mio caso… Quando ho scritto ho pensato di farlo non per esperti ma con il proposito di allargare quanto più possibile il numero dei lettori. Quindi scrivo una lingua letteraria aperta a qualunque contributo… certo per leggerlo un po’ di sardo bisogna saperlo… Altrimenti risulta difficile. Ma non è detto che un lettore che conosce altre lingue latine, lo spagnolo ad esempio, non ci si ritrovi. Non c’è poi tanta distanza tra queste lingue. Non capirà tutto. Gli sfuggirà qualche termine. Ma il contesto lo aiuterà a capire.

Mauro Bafile