Delusi e astenuti, riformisti verso la sconfitta in Iran

Cittadini passano davanti dei poster elettorali in una strada di Teheran. (money.it)
Cittadini passano davanti dei poster elettorali in una strada di Teheran. (money.it)

TEHERAN. – Le difficoltà economiche, le promesse non mantenute dal presidente Hassan Rohani e infine la bocciatura da parte del Consiglio dei Guardiani delle candidature dei principali esponenti riformisti, tra i quali 75 deputati uscenti. Sono questi i motivi che convincono gran parte dell’elettorato iraniano sostenitore delle riforme a dichiarare la sua astensione nelle elezioni parlamentari del 21 febbraio.

Ragioni che gli esponenti di questo schieramento comprendono, invitando tuttavia i cittadini a recarsi alle urne.

Nelle strade di Teheran, già soffocata dal traffico per le compere in vista del Capodanno persiano, all’equinozio di primavera, non si respira nemmeno lontanamente l’entusiasmo che precedette le presidenziali del 2013 e 2017, vinte trionfalmente da Rohani con il suo programma di distensione con l’Occidente e una liberalizzazione interna. Sui muri sono assenti i simboli delle varie liste – in Iran non esistono partiti veri e propri – così come le fotografie dei candidati e delle candidate, che invece pullulavano nelle precedenti legislative di cinque anni fa.

L’atmosfera è di stanchezza, dopo le crisi che hanno scosso il Paese nelle ultime settimane, portandolo sull’orlo di una guerra aperta con gli Usa in seguito all’uccisione in un blitz americano del generale Qassem Soleimani e l’abbattimento del Boeing ucraino da parte della contraerea iraniana. Ma, come di consueto, le autorità chiamano il popolo alle urne.

La Guida suprema, Ali Khamenei, ha affermato martedì che votare “è un dovere religioso” per sconfiggere i “complotti malvagi” degli Stati Uniti e di Israele. Diverse le argomentazioni usate da Rohani, che ha sottolineato la necessità di andare alle urne per avviare un percorso di “riconciliazione nazionale”. Il presidente ha anche criticato apertamente la bocciatura delle candidature – quasi la metà su un totale di poco più di 14.000 – avvertendo che ciò rischia di mettere in pericolo la “dimensione della Repubblica”, accanto a quella islamica del sistema.

Anche Hossein Abdollahi, direttore del giornale riformista Arman, lancia appelli al voto, ma con con una motivazione ancora diversa: “I 41 anni della Repubblica islamica – dice all’ANSA – hanno dimostrato che quando la partecipazione è più alta, a vincere sono i riformisti”. Quanto alle accuse dei conservatori, secondo i quali l’elettorato riformista non andrà a votare perché deluso dai fallimenti di questo schieramento, Abdollahi le respinge decisamente: “Molti ci associano al presidente – sottolinea – perché lo abbiamo sostenuto. Ma Rohani non è mai stato riformista, bensì un moderato che è stato sostenuto da una coalizione ampia, fatta di riformisti e conservatori moderati nel Parlamento uscente che, su 290 deputati, contava solo una ventina di veri riformisti”.

Anche Abdollahi sottolinea quelle che definisce le promesse non mantenute da Rohani sul piano interno. Prima fra tutte la liberazione di Mir Hossein Mussavi e Mehdi Karrubi, i leader dell’Onda Verde del 2009 ancora agli arresti domiciliari. O misure efficaci per “mettere fine alla discriminazione delle donne”. Ma sottolinea che in economia ha fatto cose buone, nei limiti dei poteri del governo. I problemi maggiori sono cominciati con le sanzioni reintrodotte dagli Usa con l’uscita dall’accordo sul nucleare del 2015. Proprio per questo il direttore di Arman afferma la necessità di mantenere aperti i canali del dialogo con Washington.

“Lo so – ammette Abdollahi – che con Donald Trump ci sono poche possibilità di avere veri negoziati. Ma l’uscita degli americani dall’accordo non debe spingere noi a fare altrettanto. Il dialogo non è un segno di debolezza – conclude – e la vittoria non sta nel lasciare il tavolo delle trattative”.

(dell’inviato Alberto Zanconato/ANSA)