Enrica Barni, una chef tutta all’italiana

MADRID – “L’Accademia del Gusto è una scuola prettamente italiana. In seno ad essa si insegnano sia a livello professionale, sia a quello amatoriale, le basi della cucina italiana. Non si tratta solo di ricette ma di far capire l’importanza della scelta del prodotto principale, della cottura della pasta e della sua qualità”. La chef Enrica Barni, responsabile dell’Accademia del Gusto, parla con entusiasmo. La cucina è tutto il suo mondo. E ci tiene a sottolinearlo. D’altronde la sua è una vita dedicata alla ricerca di nuovi sapori, di nuovi odori, di nuove esperienze. La incontriamo nella sede dell’Accademia, a Madrid, in Calle Barbiú 55. Per tanti, quel piccolo fazzoletto di strade e vicoli, nel quartiere di “Río Rosas”, è una “little Italy”. E ragioni non mancano. Ci sono le sedi della Cancelleria Consolare di Madrid e della Camera di Commercio Italiana per la Spagna. Ci sono anche la Scuola Statale Italiana e a pochi passi la Libreria Italiana. Inutile dire, poi, che quelle strade pullulano di bar, tavole calde, e ristoranti tipicamente italiani. Sovente, camminando tra un vicolo e l’altro, ci s’imbatte con giovani e non più giovani che conversano in italiano o in “itañol”. Dipende se sono di “nuova” o “vecchia” emigrazione.

– Queste – prosegue Enrica – sono alcune delle cose che noi cerchiamo di far capire, di insegnare. Scegliere un tipo di pasta… può diventare veramente complicato. In un negozio se ne possono trovare anche 50, tutte dalle caratteristiche diverse. Quale acquistare?

– Come è nata l’idea dell’Accademia del Gusto? Cosa l’ha spinta ad emigrare a Madrid?

Enrica Barni

– Innanzitutto – precisa immediatamente – Madrid non è stata la mia prima destinazione. Sono stata 8 anni nella zona di Malaga. Poi ho conosciuto l’azienda Negrini, una importatrice di prodotti italiani di ottima qualità.  Ho iniziato a collaborare nella zona di Malaga. Strada facendo è maturato questo progetto: l’Accademia del Gusto. Nicoletta Negrini voleva metter su una scuola di cucina per studiare il gusto degli spagnoli. Stava importando prodotti di altissima qualità, buonissimi, ma alcuni non avevano presa sul mercato. Stiamo parlando, ad esempio, degli stracchini, che non riuscivano ad entrare.

Enrica spiega che essendo l’azienda Negrini “una distributrice, aveva sempre avuto uno stretto contatto con il cliente, l’impiegato della salumeria, il cuoco”. Nicoletta Negrini capì che “avendo un negozio e una scuola di cucina, avrebbero potuto fare divulgazione e, allo stesso tempo, osservare la reazione dei clienti di fronte ad alcuni prodotti meno comuni, alcuni sapori non tradizionali”.

– La scuola è nata come un piccolo test per l’azienda d’importazione – prosegue-. Nell’Accademia abbiamo anche prodotti che non sono nel catalogo Negrini. Li proviamo, osserviamo la reazione delle persone, ascoltiamo i commenti del cliente. L’Accademia ci permette di renderci conto delle differenze tra il palato spagnolo e quello italiano.

– Cioè?

La chef ci dice subito che “noi italiani amiamo moltissimo il retrogusto”. E spiega:

– Sono i sapori dolci o soavi che arrivano nella parte retrostante della bocca. Lo spagnolo, invece, ama i sapori nasali e di bocca, tutti abbastanza forti. Ad esempio, tutti i salami piacciono molto, da una finocchiona a un ferrarese o a un salame piccante napoletano. Si vende molto bene tutto ciò che è d’impatto: un gorgonzola, un gorgonzola piccante, un gorgonzola affinato con vino. Questo è un po’ il lavoro che fa l’Accademia come negozio. Poi abbiamo la scuola, che è prettamente italiana.

Torna sul discorso della pasta. Sostiene che è importante imparare a conoscerla dal colore. Ad esempio, spiega, a noi ignoranti in materia, che una pasta più scura è una pasta essiccata velocemente.

– Quindi – ci dice – si è caramellato lo zucchero. Il suo tempo di cucina è molto basso. Quando si prende un pacchetto di pasta, è importante vedere i minuti di cottura. Quanto più tempo è necessario, tanto più la pasta è di qualità. Ma attenzione. La pasta all’uovo funziona esattamente al contrario. Meno tempo di cottura richiede e più la qualità è superiore. Normalmente, la pasta all’uovo arrotolata è di qualità inferiore a quella distesa. Io – sottolinea Erica senza nascondere un pizzico di orgoglio e mostrandosi radicale sull’argomento – difendo fortemente il prodotto italiano.  In questo senso sono abbastanza talebana.

– Un po’ difficile… visto che certe abitudini non si possono evitare…

– Non faccio nulla che non sia completamente italiano – ribadisce categorica -. Se mi chiedono un cappuccino in un bicchiere di plastica, semplicemente non lo servo. Se mi chiedono una carbonara con la panna, non la cucino. Siamo una scuola. Ci sono criteri che vanno rispettati. Non si può essere condiscendenti.

– Quali sono le differenze più forti tra cucina spagnola e quella italiana? Ad esempio, quali sono i sapori che privilegiano l’una e l’altra?.

–  Quella spagnola è una cucina dai sapori molto forti – commenta -. Dobbiamo prendere in considerazione che ancora esiste un retro da cucina povera. Lo spagnolo solamente da pochi anni ha avuto la possibilità di accedere a qualunque tipo di prodotto. È in svantaggio rispetto a noi. Si nota anche dal fatto che non ha una pasticceria sviluppata.

Riconosce che in Spagna vi sono “prodotti, cotture che sono importanti”. E, come esempio, porta i “guisados”, i fritti e anche prodotti dal sapore forte.

– Il prosciutto spagnolo – sottolinea – è molto buono, ma lo puoi mangiare in piccola quantità. Quello italiano, in cambio, è più delicato. Non è un prosciutto che stanca. Lo stesso accade tra il gorgonzola piccante e un “cabrales”. Prendi un cucchiaino di “cabral” e ti blocca tutta la bocca. Il gorgonzola piccante ti permette la salivazione, di continuare a mangiare.

Sostiene che in Spagna non c’è l’abitudine di usare molti formaggi. La differenza, commenta Enrica, emerge dai numeri: “in Italia si consumano ben 24 kg di formaggio a persona, in Spagna appena 4”.

 

Una vita per la cucina

Quella di Enrica è una vita dedicata alla cucina. Un amore coltivato negli anni e che si riflette nel modo in cui parla di sapori e di odori.

– Ho cominciato per errore – ci dice sorridendo. Poi, precisa:

– Più che della cucina, sono innamorata dei prodotti. La cucina mi permette di giocare con loro. È come avere una tela e tanti colori con cui disegnare. Quello dello chef – confessa – è un lavoro che puoi fare solo se ti piace. Ti prende tutta la vita.

– È anche una professione molto sacrificata…

– Sì, è proprio così – concorda -. Si lavora 14, 15, 16 ore. Certo, se si vuole fare bene. Essere chef vuol dire stare sempre aggiornato, sempre attivo. Sperimentare. Se si lavora sempre nello stesso posto, si cade nella routine, si perde l’entusiasmo e diventa tutto più noioso. Io non mi sono mai fermata. Ho iniziato a lavorare in uno Spa. Nei periodi di ferie, mi trasferivo a NY, in Ungheria… Ho lavorato un po’ ovunque, in giro per tutto il mondo. Il nostro lavoro permette di viaggiare. Sempre e quando lo fai con passione.

– Lei ha viaggiato molto. Ha avuto modo di apprezzare le differenti cucine…

– Ho viaggiato proprio per quello – ci dice senza permetterci di proseguire -. Per conoscere le diverse cucine. Nella stessa Italia le differenze tra Nord e Sud sono enormi. Mi è capitato di lavorare un periodo nella zona di Udine. Da buona toscana, ero stupita dalla quantità di burro che si consumava. In una giornata, usavo il burro che normalmente in Toscana consumavo in un anno. Sono differenze molto importanti da imparare. Permettono di capire le caratteristiche del territorio. Ho lavorato a New York per 6 mesi. Era un ristorante tipicamente americano. Perché? Perché aveva giapponesi che facevano antipasti di pesce crudo; italiani o italo-americani che cucinavano la pasta; americani che cuocevano la carne e francesi che preparavano i dolci.

– La differenza tra la cucina americana e quella italiana?

– Non è possibile fare un paragone – commenta -. La cucina italiana ha una storia. Esistono ricette del 1400. La cucina americana è una fusione di tante cucine. Gli americani non hanno la cultura del cucinare, hanno quella del comprare.

– E l’influenza italiana? – insistiamo.

– Viene fuori sempre. Noi non perdiamo le tradizioni. Si vede in Sudamerica. In Venezuela, in Argentina si festeggia il Natale con prodotti tipicamente italiani; prodotti che sono da mangiare in periodi freddi. Mangiare un panettone, mangiare un cotechino a dicembre, quando è caldo…

– In Venezuela è normale mangiare il panettone al mare, in spiaggia…

– Sì, ed è un po’ fuori dalla logica – ci dice -. Da 10 anni a questa parte, il Panettone ha fatto il suo ingresso importantissimo anche nella cultura spagnola. Considera che qui, nel periodo di dicembre, vendo circa 3mila panettoni. Tutti artigianali e molto buoni. Una delle ragioni per cui riesco a venderne una quantità così alta è perché sono panettoni eccellenti. Nicoletta Negrini, proprietaria dell’azienda, sceglie sempre quelli di altissima qualità.

– Abbiamo parlato tanto, ma non mi ha spiegato perché è in Spagna…

– Nella mia vita non mi sono mai fermata – sorride -. Ho bisogno di rinnovarmi, di avere nuovi stimoli. Sono stata in Italia per molto tempo, tra l’altro avevo un Hotel rurale in Toscana. Ma mi sentivo molto stretta in quell’agroturismo. Quando mi è arrivata una proposta da Marbella, non ci ho pensato due volte. Sono partita con un biglietto di 15 giorni. Ho pensato: “vado in vacanza e vedo come va”. Sono rimasta. È stato facile trasferirmi. Avevo un contratto di lavoro e una casa compresa nel contratto. Mi sono trovata benissimo. Sono 15 anni ormai. La Spagna è una seconda casa.

 

Una Accademia per il buon gusto

E passiamo all’Accademia. Gestire un istituto esigente non è facile. Ed è ancora più difficile quando si vuole insegnare una cucina assai diversa da quella del Paese. Come trasmettere l’amore verso certi gusti, verso determinati sapori, verso quegli odori che sono solo italiani? È per questo che chiediamo:

– Quali sono i corsi più richiesti?

Enrica non ha dubbi. I più gettonati sono quelli di pasta e salsa.

– Si contemplano le salse classiche: una carbonara, una matriciana, un cacio e pepe, un pesto, uno spaghetto alle vongole – spiega -. Insomma, le salse per pasta. Dopodiché, ci sono i corsi per imparare a fare la pasta fresca. Può sembrare raro, ma in Spagna piace molto. In particolare, piace quella ripiena. Ci sono poi i risotti. Questi sono i grandi sconosciuti. È molto difficile far capire che non si può fare una paella con un riso italiano. Ma neanche si può pretendere di cucinare un risotto con il riso spagnolo. Sono due prodotti dalle caratteristiche molto differenti.

 

Anche la pizza va alla grande. Enrica sostiene che, a volte, la sua preparazione è portata all’estremo. Ad esempio, ci sono locali che reclamizzano pizze con 52 o addirittura 72 ore di fermentazione.

– Sono l’altro estremo – commenta la chef -. Chiaro, è sempre bene fare una fermentazione. Ma questa deve essere adeguata al tipo di farina. Se ha poca proteina, non ha bisogno di tanto tempo di fermentazione. Al contrario, se ne ha molta, ha bisogno di fermentare più a lungo.

– Forse è un’eresia ma è possibile coniugare la cucina italiana con quella spagnola?

– In alcuni aspetti si può – ammette di buon grado -. Ma, come ho detto prima, abbiamo due palati diversi. Quindi, anche risultati diversi. Ad esempio, nella cucina italiana c’è una regola: non più di tre. Ovvero, un buon piatto non può avere più di tre ingredienti principali. Nella cucina spagnola questa regola non esiste.  Si ha la tendenza a credere che quanti più ingredienti si aggiungono, tanto più buono è il prodotto finale. Così facendo, però, non si riesce ad apprezzarne il sapore. Specialmente quando già sono di per sé abbastanza forti.

– Ma la cucina spagnola, mi corregge se mi sbaglio, è fatta di sapori intensi…

– Non la nostra – replica -. Ad esempio, se offro un barolo, considerato uno dei grandi vini a livello mondiale, ad un cliente spagnolo che non ha l’abitudine di provare vini, mi dice immediatamente che “passa come acqua”. Per loro, sono molto più importanti i vini del Sud Italia: vini nasali e di bocca.

– Noi italiani siamo più portati a sapori meno violenti…

– Si, è così – ammette. E fa il caso della mortadella. Secondo Enrica è una prelibatezza considerata però “un prodotto povero”

– La mortadella è un qualcosa di cui tutti ci ricordiamo – asserisce -. L’abbiamo mangiata fin da piccoli. Ebbene – racconta -, Nicoletta Negroni è proprietaria di una fabbrica di affettati in Italia. La Mortadella che produce è un 80 per cento di spalla e un 20 per cento di guanciale. Non ha coloranti, non ha conservanti ed è senza glutine e lattosio. Per farla apprezzare alla clientela spagnola ha dovuto aggiungere del tartufo.

Enrica Barni con Nicoletta Negrini

Commenta che in Spagna mancano ancora regole sui coloranti, l’uso del glutine, del lattosio, e delle iniezioni.

– Ad esempio – spiega -, è frequente vedere un prosciutto cotto, tagliato, in una vaschetta piena d’acqua. Ciò vuol dire che è un prosciutto iniettato. Il nostro prosciutto cotto è del tutto naturale. È la coscia di un San Daniele. Quindi è un pezzo calibrato di 18 chili che viene messo al forno solo con erbe aromatiche. Quando lo togliamo dal forno pesa 10 kg. Vuol dire che ne ha persi 8. Se si vuole produrre un prosciutto molto economico, da poter vendere a buon prezzo, è necessario iniettarvi acqua. Così, durante la cottura, non perde l’acqua del prosciutto ma quella iniettata. Il suo peso resta inalterato.

– E il sapore?

– Si perde. – ci dice -. Viene a meno la qualità.

– Negli anni della dittatura, gli spagnoli non hanno avuto modo di conoscere altre culture, altre tradizioni… La stragrande maggioranza era povera…

– Si, questa è una delle ragioni – ammette -. Nel periodo più duro, qui in Spagna si pensava che chi doveva mangiare era l’uomo di casa. Era lui che andava a lavorare e quindi aveva bisogno di energia. I bambini non avevano la precedenza come da noi. Accade ancora oggi. Ci sono clienti che chiedono prosciutto cotto. Chiedo quale vuole. Mi rispondono: “quello più economico tanto è per il bambino”. In Italia abbiamo un altro atteggiamento. In Spagna non si prepara il palato dei bambini. Noi siamo abituati fin da piccoli a mangiare bene.

Enrica fa l’esempio dell’aperitivo. In Italia si accompagna con formaggi, un po’ di affettato, pizzette e quant’altro. Non così in Spagna. Con l’aperitivo troviamo patate fritte e olive.

– Altra cosa che colpisce tantissimo sono gli inviti a casa – aggiunge -. Puoi conoscere una persona da tantissimi anni ma non ti inviterà mai. Ci si incontra al ristorante… Oppure, quando entri nel circolo di amici più stretti, si va a casa di qualcuno ma ognuno porta qualcosa … C’è poi la tradizione del condividere, dell’assaggio. Noi, quando andiamo al ristorante, abbiamo l’abitudine di avere le nostre porzioni. In Spagna no. Si chiedono tre o quattro cose e si condividono. È per questo che sono nate pizzerie che in ogni pezzo, in ogni fetta hanno la stessa quantità di ingredienti. Così si evita che ci sia chi mangia più pomodoro e chi, invece, più mozzarella.

– Qual è il piatto che più ti piace cucinare e perché? – chiediamo per concludere.

– In realtà non ho un piatto preferito – confessa -. Mi piace molto valorizzare la tradizione della mia regione. È quella che conosco meglio perché ci sono cresciuta. Se preparo una ribollita, lo faccio con tutti i crismi. Sono anche legata ai miei prodotti. Siamo un paese di olio. E io porto quello toscano. Poi discuto con alcuni clienti che mi dicono: “voi in toscana fate l’olio con le nostre olive”. È vero. Ma io rispondo che se non c’eravamo noi a produrlo e a venderlo, loro non saprebbero cosa fare con quelle olive. Mi piace anche avere un formaggio toscano buono. Con Nicoletta, adesso, stiamo importando un pecorino toscano di Pienza. Eccellente. Riusciamo ad avere ottimi prodotti per una cucina basica… Nicoletta – prosegue – ha tutte le linee per soddisfare quasi ogni necessità del mercato. Con la linea d’importazione tocca tutti i punti: dalla grande distribuzione ai ristoranti stellati, alle pizzerie.

Ci tiene a sottolineare, per concludere, che Nicoletta Negrini, è stata la persona che l’ha contattata e con la quale condivide interessi.

– È lei il fulcro – sottolinea -. Ci tiene alla qualità. Vuole solo il miglior prodotto. Cerca di capire perché è o no accettato. Siamo sempre alla ricerca del meglio.

Mauro Bafile

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