Maduro “viaggia al futuro”, i venezuelani al passato

CARACAS. Mentre il presidente del Venezuela Nicolás Maduro viaggia, andata e ritorno, “al futuro” (beato lui che trova la benzina), i suoi abitanti tornano al passato.

“Io sono già andato al futuro e sono tornato ed ho visto che tutto andrà bene”, ha assicurato Maduro a metà gennaio per calmare la popolazione di fronte alla crisi politica, economica e sociale che vive il paese, molto prima del coronavirus.

Spirito spartano

In questo tunnel del tempo i venezuelani sono entrati verso il 2009, quando il defunto presidente Hugo Chávez, dopo 10 anni al potere, invitava il popolo a fare la doccia in “tre minuti” per risparmiare acqua.

“Uno si può lavare al mattino con un vaso d’acqua, farsi il bagno in tre minuti con una ciotolina, io lo faccio in due minuti… altrimenti che comunismo è?”, proclamava.

Mesi dopo, quando la crisi elettrica diventava sempre più critica, Chávez consigliava anche l’uso della candela. “Fate il bagno con una ciotolina ed una candelina” suggeriva sorridendo.

I richiami al sacrificio di Chávez erano imitati dai dirigenti del suo partito (Psuv) di fronte alle difficoltà, soprattutto in epoca di elezioni o di scontro politico. “Con fame e senza lavoro con Chávez me la gioco” proclamavano nel 2011 i sostenitori del Psuv durante i comizi.

“Noi siamo capaci di mangiare legno o al posto di due uova, due pietre. Mangeremo pietre fritte ma non ci piegherà niente e nessuno”, giurava dal canto suo il governatore dello Stato Bolívar, Francisco Rangel Gómez, nel 2015.

Da allora fino ad oggi, pur con qualche alto e basso, la caduta nello scivolo del tempo dei venezuelani non si è più fermata.

“Guerra al latifondo”

Questo “spirito spartano” veniva incoraggiato dopo aver messo in moto una politica di espropriazioni di terre, aziende agricole ed imprese, iniziata dal defunto presidente Hugo Chávez nel 2005 con una dichiarazione di “guerra al latifondo”

Chávez e Maduro hanno espropriato fino ad oggi cinque milioni di ettari di terre produttive – sono a cifre ufficiali- e più di 1.300 aziende private di petrolio, acciaio, cemento, alimentari, agricole, trasporti, standom al “Centro de Divulgación del Conocimiento Economico por la Libertad” (Cedice).

Tutte queste industrie e tenute agricole adesso improduttive e pressoché chiuse hanno fatto del Venezuela, che esportava caffè, cacao e prodotti agricoli dal tempo della colonia, un paese importatore di alimenti.

“Da produttrici di alimenti per tutti i venezolani adesso quelle terre (espropriate) solo generano  dolore”, afferma Aquiles Hopkins, presidente de Fedeagro.

Salto indietro di 50 anni

Il vicepresidente dello stesso organismo agricolo, Celso Fantinel, stima che i livelli di produzione siano calati fino a quelli di 50 anni fa, con appena 1,4 milioni di ettari lavorati su un totale di 9 milioni coltivabili.

“La politica di espropriazioni hanno arrecato un grave danno alla produzione e spaventato gli investimenti. La ‘ley de tierra’ decretata da Chávez è stata una bandiera del suo partito e della visione del ‘socialismo del 20esimo secolo’”. Oggi siamo retrocessi ai livelli di produzione di 1970.”

Gli allevatori riferiscono anch’essi che la produzione di latte e carne è tornata ai livelli del 1972: “La produzione nazionale di latte che nel passato superava i 90 litri per persona all’anno appena raggiunge i 45 litri nel 2006, portandosi a quelli registrati 50 anni fa”, dice Roger Figueroa presidente di Cavilac, la Camera Venezuelana dell’Industria lattiero-caseare.

Dello stesso avviso è Armando Chacin, presidente dell’organismo degli allevatori di bestiame Fedenaga. “Dal 1998 al 2016 siamo passati da una produzione di 405 mila tonnellate annuali a 80 mila. Siamo retrocessi di 40 anni”.

Senza benzina ne costruzione

Tra espropriazioni, controlli statali, mancanza di manutenzione e di nuovi investimenti, le principali industrie del paese sono andate a picco una dopo l’altra.

La Statale Pdvsa che nel 2005 occupava il terzo posto tra le 50 compagnie petrolifere più importanti al mondo, nelle statistiche del Petroleum Intelligence Weekly, è piombata ultimo posto del ranking della Johns Hopkins University pubblicato dalla rivista Forbes.

Dopo vent’anni ininterrotti di “chavismo”, la produzione di petrolio, stando alle cifre ufficiali, è crollata da 3,3 milioni di barili al giorno a meno di 760 mila, essendo superata nell’Opec anche da Algeria, Angola, Nigeria che ne estraggono più di in milione.

Sottomessa a frequenti interruzioni a causa di incendi e guasti (530 incidenti registrati dal 2003 al 2018) la raffinazione di greggio è calata da un milione 300 mila barili giornalieri a 40 mila barili, secondo la Commissione di Energia del Parlamento. Quindi, un deficit di 110 mila barili. Gli automobilisti devono fare la fila per 8, 12 ore per accere alle stazioni di servizi. “Venezuela è rimasta senza benzina grazie a due decenni continui di distruzione, populismo, demagogia, improvvisazione, corruzione e disinteresse verso la meritocrazia” sottolinea l’esperto José Toro Hardy.

L’industria della costruzione, con il monopolio statale sul cemento e ferro, è in caduta libera dal 2012. L’assemblaggio di automobili, 170.000 unità nel 2007, è crollato, 2.768 unità nel 2016 e, lo scorso anno appena 459. Cosi il Pil per capita che nell’anno 1999 era di 4.077.50 dollari, si è dimezzato fino a 2,548 dollari l’anno scorso.

Uno stipendio di 3 dollari

Con un reddito minimo mensile di tre dollari, i venezuelani sono precipitati più in basso del 1955, quando percepivano nove dollari al mese. Ma allora c’era la dittatura del generale Marcos Pérez Jiménez.

Niente da stupirsi se con questi stipendi e con una inflazione di 130.000% nel 2018 – stando alla Banca Centrale – 6,8 milioni di persone (rapporto della FAO) sono denutrite o soffrono la fame. Una realtà mai vissuta. Nella Venezuela rurale del secolo scorso le famiglie erano umili, povere ma non gli mancava certo il cibo. Coltivato il loro piccolo orto, seminavano in una terra fertile e generosa “dove getti un seme e cresce una pianta”, secondo un adagio popolare.

Scene futuristiche

Scene del futuro ma del tipo post nucleare sono quelle che invece si osservano oggi:  famiglie mendicando, persone cercando cibo

nella spazzatura, malati sdraiati a terra negli ospedali, neonati in scatole di cartone nel pavimento nei reparti di ostetricia egiovani “garimpeiros”, immersi nel puzzolente fiume “Guaire”, vera e propria fogna che attraversa Caracas, “pescando” – a piedi nudi e senza camicia – qualsiasi oggetto di valore, oro, argento, rame da poter rivendere per mangiare. Non mancano, poi, le famiglie cucinando con legna nei “barrios” e persone caricando  l’acqua raccolta in qualche serbatoio per strada così come file di macchine lunghe più di due chilometri per fare rifornimento di benzina. Per non parlare delle strade piene di buche, come se fossero state bombardate o del caos nei servizi pubblici. Di fronte a questa realtà, sono molti i venezolani nel Paese assieme agli oltre quattro milioni di emigrati all’estero che sognano in un futuro migliore nel proprio paese, e preferibilmente, senza Maduro.

Roberto Romanelli

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