Playlist da casa: i grandi pianisti jazz, un viaggio emotivo

Bill Evans al piano nel concerto con la band The Spy Killers nell'International Jazz Festival of San Javier.
Bill Evans al piano nel concerto con la band The Spy Killers nell'International Jazz Festival of San Javier. . EPA/Marcial Guillén

ROMA. – Il tema della settimana è pianisti jazz. Non una storia e non una classifica, piuttosto un viaggio emotivo tra ricordi personali e l’intenzione di far ascoltare anche qualche musicista, con l’eccezione di Bill Evans, che non sempre ha ottenuto l’attenzione che merita.

BILL EVANS – “Live at Music Inn, Rome, 1979” – Cominciare con il più grande è facile, ma al di là dell’ascolto c’è una storia che vale la pena raccontare. Quella a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 è stata una stagione d’oro per il jazz in Italia, non a caso proprio in quegli anni, grazie anche alla frequentazione con i grandi musicisti, si è formata la generazione che ha cambiato il jazz in Italia.

A Roma Pepito e Picchi Pignatelli avevano aperto, a largo dei Fiorentini, il Music Inn, un club che è stato un luogo di formazione e all’epoca uno dei locali più importanti d’Europa. In quei giorni felici la Rai registrava di pomeriggio, per pochi fortunati, un concerto delle grandi star che poi avrebbero suonato la sera. Non capita tutti i giorni di ascoltare Bill Evans come se fosse a casa di un amico.

Come molti locali del centro di Roma il Music Inn era molto umido e il pianoforte si scordava. Evans, che non era un tipo facile, nonostante i timori della vigilia, nel pomeriggio suonò senza problemi. Per scrupolo, dopo fu chiamato un accordatore. La sera Evans arrivò, suonò un accordo e se andò. Il suono era cambiato. Io arrivai al Music Inn parcheggiai e vidi Bill Evans che beveva una birra appoggiato alla spalletta del Tevere. Dentro il panico.

“Bill Evans se n”è andato”. “E’ qui fuori a bere una birra”. Picchi, indimenticabile gran dama del jazz, compì la missione diplomatica e Bill Evans suonò con questo splendido trio del quale faceva parte Marc Johnson, allora all’inizio della sua strepitosa carriera.

JAKI BYARD – Jaki Byard appartiene alla categoria dei grandi sottovalutati. Il pubblico lo conosce come il pianista che ha registrato alcuni dei capolavori di Charles Mingus, tipo “Mingus Mingus Mingus Mingus Mingus” e “The Black Saint and the Sinner Lady” o quelle del gruppo con Eric Dolphy di cui esiste su Youtube un concerto in Europa del 1964. Un pianista enciclopedico e un super virtuoso capace di utilizzare lo stile “stride” come le dissonanze di Cecil Taylor, insomma uno di quelli che trasforma un assolo in una storia dallo sviluppo imprevedibile.

Su Youtbe c’è molto materiale da solista ma poche immagini. Per apprezzare il suo magistero ascoltate il concerto in piano solo “Live At The Keystone Corne”. Byard, che ha avuto anche una prestigiosa carriera da insegnante, è un “Cold Case” del Jazz: fu trovato morto in casa. Ad ucciderlo un singolo colpo di pistola alla testa. I suoi familiari lo avevano visto poche ora prima e non aveva mai manifestato sintomi di depressione o volontà suicide. L’arma che ha sparato il colpo non fu mai trovata.

BOBBY TIMMONS – Per certi aspetti una vicenda simile a quella di Byard. Il nome di Timmons è associato ai Jazz Messengers di Art Blakey e alla band dei fratelli Adderley, con i quali ha suonato tra gli anni ’50 e ’60, dunque in piena fase “Hard Bop”. Poi c’è da dire che la sua carriera è stata condizionato dalla sua devastante dipendenza da eroina e alcol: è morto a 39 anni, quando già era finito ai margini.

Timmons è l’autore di brani come “Moanin'” e “This Here” che sono i titoli che hanno generato la nascita del Soul Jazz, uno stile che conteneva i germi per la musica black futura e la cui influenza arriva fino al Rap, che ha campionato a man bassa da questo genere fondamentale per i dj e i gruppi inglesi dell’Acid Jazz. Timmons non ha mai ottenuto né i compensi che avrebbe dovuto maturare per i suoi titoli più famosi né i riconoscimenti per le sue qualità. Su YouTube una ricca scelta del suo repertorio solista.

RED GARLAND – Un grande che ha suonato con buona parte dei giganti del jazz, Parker, Coleman Hawkins, Lester Young, per citarne solo qualcuno, e che ha fatto parte del primo grande quintetto di Miles Davis, quello del periodo Prestige, con John Coltrane, Paul Chambers, Philly Joe Jones. E’ la band di “Workin'”, “Steamin'”, “Cookin'” e “Relaxing With The Miles Davis Quintet”.

Poi i suoi rapporti con Miles si deteriorarono e il capo lo licenziò. Era un musicista dallo stile elegatissimo che ha registrato un’infinità di dischi da collezione, diversi con Coltrane, ma c’è n’è uno molto bello con Phil Woods. Se c’è un suggerimento è bello ascoltare il super trio con Ron Carter e Philly Joe Jones.

KENNY BARRON – Viene giustamente definito come uno dei più influenti pianisti dell’era post Bop. Un musicista dalla conoscenza musicale impressionante che ha fatto parte del gruppo Sphere, una delle band più importanti degli anni ’80 e che rappresenta la migliore rilettura del repertorio di Thelonious Monk (Sphere era il suo secondo misterioso nome), uno dei musicisti più importanti e indecifrabili della storia del jazz. Con Barron c’erano Charlie Rouse e Ben Riley, sassofonista e batterista che hanno collaborato con Monk, e Buster Williams, virtuoso del contrabbasso e pupillo di Ron Carter. Del gruppo Sphere su Youtube c’è un bellissimo concerto a Umbria Jazz.

ENRICO PIERANUNZI – E’ da anni uno dei più importanti pianisti europei. Si è formato al Music Inn, dov’era di casa, suonando con molti grandi che venivano in Italia senza ritmica. Poi si è costruito una carriera da leader che l’ha visto registrare con gente come Chet Baker, Lee Konitz, Marc Johnson, Charlie Haden, Paul Motian, Chris Potter. E’ l’unico musicista italiano ad aver registrato al Village Vanguard di New York, il locale di jazz più prestigioso al mondo.

E proprio il suo “Live at the Village Vanguard” con Marc Johnson e Paul Motian ha vinto l’Echo Award, il Grammy Tedesco, mentre “Live in Paris”, con Hein Van de Geyn al contrabbaso e Dede Ceccarelli alla batteria è stato giudicato da “Down Beat”, la “Bibbia del Jazz”, tra i migliori cd del decennio 2000/2010. Su Youtube c’è un bel concerto di solo piano del 2013 e una ventina di minuti del reunion concert con Mark Johnson e Joey Baron.

(di Paolo Biamonte/ANSA)

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