Una mascherina a passeggio

Due suore con la mascherina passeggiano nel parco di Pineta Sacchetti a Roma.
Due suore con la mascherina passeggiano nel parco di Pineta Sacchetti a Roma. ANSA/ETTORE FERRARI

Finalmente sono uscita a camminare. E con me tante altre mascherine. Multiforme e multicolorate. Eravamo presidio esclusivo di certi ambienti ma ora facciamo appello pressoché dappertutto. Siamo cercate e ricercate, progettate, comprate, cucite, igienizzate, lavate, stirate e sterilizzate persino sotto il sole. Diventate frutto pure di una certa creatività, abbiamo acquisito un posto in società e se dobbiamo dar retta alle previsioni, ci rimarremo per un bel pò.

È una passeggiata talvolta divertente, talvolta seriosa. Lungo la via ci incrociamo, osserviamo, scrutiamo e pure volutamente ci scansiamo. La maggior parte non fiata, raramente ci salutiamo, però non mancano quelle che chiacchierano o addirittura discutono animatamente tra loro. Alcuni ci portano con disinvoltura, altri con celato impaccio ma ci siamo guadagnate un posto sul viso che nascondiamo a metà.

Passo dopo passo, tuttavia, mi accorgo che molti non ci trattano adeguatamente: preferiscono umiliarci, abbassandoci sotto il naso oppure sotto il mento o, con una certa nonchalance, ci portano sulla testa a modo di cerchietto, o appese pericolosamente da un orecchio o, peggio ancora, ci dimenticano a casa. Osservo questo atteggiamento soprattutto nelle facce dei ciclisti bardati, dei runners oppure degli adolescenti maschi, perché le ragazze e le signore si premurano a portarci correttamente (femmine dovevamo essere!).

Però, in onore alla verità, la maggior parte ci vuole bene e sembra averci accettato…per forza! I testimoni sono le famiglie: sia grandi che piccoli ci scelgono con cura e badano ad abbinare colori, design e taglie così, per identificare il cluster. Anziani e nonni ci portano appresso e pur di rimanere più a lungo in compagnia di figli, nipoti e nipotini, rinunciano al libero respiro e pazientemente ci indossano.

Ma anche tra di noi ci sono differenze. Alcune coetanee mi fanno quasi rabbia tanto sono colorate, stampate con mille disegni, modaiole come chi le indossa; le chiamano fashion; altre sono più modeste, cucite in casa, probabilmente da una mamma preoccupata o da una brava nonna, usando uno scampolo o addirittura un pezzo di lenzuolo di puro cotone.

Due colori prevalgono tra di noi, l’azzurro e il bianco ma, attenzione! C’è anche il nero, il colore prediletto per le mascherine da movida, da barman o da chef o per quelle che oso definire “tecniche”, disegnate con stile e materiali a prova di tutto (secondo loro). Poi ci sono le “fai da te” che mi stanno pure simpatiche. Senza dubbio, mancano un po’ di grazia ma fanno lo stesso la loro figura. Queste sono evolute nel tempo: agli inizi sono state ricavate dal singolo pezzo di carta da forno, poi hanno aggiornato il loro potere FFP diventando una tasca di stoffa che contiene un filtro. Le prime non escono, sono sparite poverine, sopraffatte dalle seconde che si mettono in bella mostra senza alcun indugio.

Non mancano pure quelle “globali” cinesi o italiane che siano, ottima fattura e protezione, spacciate al supermercato, sky blue, o quelle prodotte nottetempo da qualche cooperativa che si premura a chiarire che non servono a nulla, meno che meno per lo scopo per cui sono state fatte.

Infine, vedo in giro le più comuni, quelle chirurgiche, da farmacia, da 0,50 centesimi -dicono- ma sottovalutano il nostro vero valore alla grande … insomma, quelle lì, azzurrine o verdine, quelle rettangolari, con tre piegoline, leggere, monouso, le migliori, come me!

Ma, ahimè! Molti non capiscono che siamo monouso e ci trattano “usa e getta”. Difatti, lungo il percorso, ho trovato varie connazionali in posizioni disdicevoli, calpestate e sporcate o fatte diventare parte dell’asfalto.

Ma non tutte le mascherine sono amichevoli. Certe sono veramente antipatiche. Mi spaventano pur essendo bianche: appuntiscono la faccia donandogli un aspetto animalesco, rendono i visi quasi dei musi, non musetti, ma musi da lupo. Altre, mi terrorizzano, le osservo passarmi accanto con valvole e valvolette che impauriscono perché fanno pensare ad un ambiente di guerra chimica e mi rammentano quanto sia indifesa, mi obbligano a chiedermi se io, semplice mascherina chirurgica, leggera e scartabile, possa veramente proteggere chi mi indossa dal mostro in agguato.

Poi ci sono quelle che lasciano intravedere a fatica gli occhi, sono enormi, coprono il viso come una tenda e sbucano a sventola dietro le orecchie che appaiono più evidenti. Queste ultime, però, si vedono meno a passeggio, me l’ha spiegato un’altra chirurgica; perché secondo lei, sono “brutte, sono state donate da qualche comune che le ha distribuite a destra e manca senza rispetto per lo stile “made in Italy” – incalza – . Malgrado siano veramente sgraziate sento empatia verso di loro. Le ho viste, fanno la loro figura indossate da qualche politico, portate da anziani senza famiglia o generalmente da chi non nulla né da perdere né in tasca.

Mi son chiesta se la nostra vita durerà a lungo, chi lo sa. Forse dipenderà dai nostri padroni forse dal tempo o dalla volontà di sopravvivere. Per ora sono fiduciosa e confidente dei pensieri di chi mi porta. Finché farò la mia parte per bene, sarò intanto usata e coccolata poi, paradossalmente, molte saremo cestinate o infilate in qualche cassetto per pietà o per ricordo o per scacciare il timore di non poter respirare liberamente mai più.

Giancarla Marchi