Trump e le tasse, schiaffo dalla Corte suprema Usa

Donald Trump en una foto de archivo.(ANSA/EPA)

WASHINGTON.  – Donald Trump incassa dalla Corte suprema una bruciante sconfitta e una temporanea vittoria sul fronte legale nella sua battaglia contro la diffusione delle dichiarazioni dei redditi, primo presidente dai tempi di Richard Nixon a non renderle pubbliche.

Ma sul fronte politico, nonostante denunci di essere vittima di una “persecuzione”, può vantare un successo perché in entrambi i casi appare improbabile che le informazioni possano essere acquisite o svelate primadelle elezioni, compromettendo la campagna per la rielezione alla Casa Bianca.

Nella prima controversia, la Corte suprema ha stabilito che i documenti finanziari del tycoon, comprese le dichiarazioni fiscali, possono essere esaminati dal procuratore (democratico) di New York Cyrus Vance nella sua indagine sui pagamenti segreti per comprare il silenzio di due donne sui loro affair con Trump: l’ex pornostar Stormy Daniels e l’ex coniglietta di Playboy Karen McDougal.  Versamenti che potrebbero costituire una violazione della legge sulla campagna elettorale del 2016.

Si tratta di una sentenza importante, perché i giudici, richiamandosi ad un principio stabilito 200 anni fa, hanno ribadito che “nessun cittadino, neppure il presidente, è categoricamente al di sopra del comune dovere di presentare prove quando richiesto in un procedimento penale”. In pratica il presidente non gode di un’immunità assoluta, come sostenevano i suoi avvocati: il suo potere esecutivo ha dei limiti, quelli della legge.

Una decisione che si affianca a quelle che costrinsero Richard Nixon a consegnare le registrazioni dello Studio Ovale nell’indagine sul Watergate e Bill Clinton a fornire prove nel Sexgate, lo scandalo politico-sessuale che coinvolse la stagista Monica Lewinsky.

Se n’è rallegrato per primo il procuratore di Nyc: “Questa è un’enorme vittoria per il sistema giudiziario della nostra nazione e per il suo principio fondante che nessuno, neppure il presidente, è sopra la legge. La nostra indagine, che è stata ritardata per quasi un anno da questa causa, riprenderà, guidata come sempre dal solenne obbligo del gran giurì di seguire la legge e i fatti, ovunque portino”.

Il problema è che la Corte suprema ha rimandato la causa ai tribunali di grado inferiore, dove la difesa del tycoon potrà sollevare nuove obiezioni legali, allungando i tempi. In ogni caso non c’è alcuna garanzia che il gran giurì, operante in grande segretezza, renda noti i documenti se e quando li otterrà.

Nel secondo caso la Corte suprema ha stabilito che due commissioni della Camera – controllata dai dem – non possano, almeno per ora, ottenere la stessa documentazione fiscale e finanziaria chiesta alla società contabile del presidente e a due banche che gli concessero prestiti, Deutsche Bank e Capital One. Richiesta fatta per indagare su possibili conflitti di interesse, su presunte evasioni fiscali, sui pagamenti alle due presunte amanti.

Ma anche in questo caso i giudici hanno rimandato la causa alle corti inferiori invitando ad esaminare meglio l’equilibrio tra i due poteri. La difesa del presidente aveva sostenuto che il Congresso non ha autorità per chiedere quelle carte perché non servono ad alcuna necessità legislativa.

 

“É un’altra caccia alle streghe”, ha twittato Trump, dicendosi vittima di una “persecuzione politica” e della faziosità della Corte suprema. Corte che però ha dato prova ancora una volta di indipendenza: entrambi i casi sono stati decisi dalla stessa maggioranza, 7 a 2, con i due giudici scelti dal tycoon schieratisi contro di lui. Come fecero con Nixon e Clinton i giudici da loro nominati.

(di Claudio Salvalaggio/ANSA)

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