Il declino della politica estera italiana

Il declino della politica estera italiana
In foto (al centro) l'onorevole Aldo Moro, il creatore della "fase mediterranea" della politica estera italiana. FOTO Pandora Rivista

La politica estera di un Paese è la tessitura continua di ragioni per migliorare e accresce le buone relazioni con amici e alleati, e per smussare il confronto con i nemici, salvo dover ricorrere ad atti ostili per affermare le proprie ragioni. Stile, etichetta, savoir faire, studioosservazione e soprattutto silenzio. Sono queste le caratteristiche di un buon diplomatico che non ama la gestualità ed è in grado di controllare (e controllarsi) le proprie pulsioni politiche. Nei testi di politica internazionale, fondamentali per comprendere quanto sia importante la “politica estera”, non a caso c’è scritto che nel negoziato “va avanti chi accetta di progredire lentamente“.

E l’Italia di politica estera ne dovrebbe sapere qualcosa. Dal punto di vista geografico, l’Italia occupa una posizione di assoluta rilevanza all’interno del bacino del Mediterraneo, una proiezione naturale verso il Nord Africa e soprattutto una privilegiata porta d’accesso all’Europa e al Medio Oriente. A capirlo, per primi, sono stati gli statunitensi che durante la Guerra fredda instaurarono le proprie basi militari sullo stivale e incentivarono profumatamente i partiti a loro affini. Un messaggio recepito dagli italiani, i quali, per quasi cinquant’anni hanno fatto della necessità di ricostruirsi una posizione internazionale una virtù, permettendosi al contempo di coltivare numerose amicizie, anche oltre la cortina di ferro.

Al contrario, al giorno d’oggi, quella nobilissima arte della tessitura di rapporti diplomatici ha dapprima subito un declino improvviso, complice Mani Pulite e la caduta del Muro di Berlino, e poi la scomparsa di figure in grado di raccogliere il guanto di sfida lanciato dalla globalizzazione. L’interesse nazionale ha soppiantato quello estero, recludendo il Ministero degli Affari Esteri ad una sorta di comparsa della scena politica italica. Il dicastero più importante si è lentamente trasformato in una zavorra dove rinchiudere qualche diplomatico a fine carriera o politici di secondo piano.

Un declino che peserà molto sulla posizione internazionale del nostro Paese. Basta dare uno sguardo agli ultimi episodi di una certa rilevanza come la guerra in Libia, l’interesse turco per le zone di influenza italiana e la liberazione della cooperante Silvia Romano. In questi frangenti, a rivestire un ruolo decisamente sottovalutato, è anche l’opinione pubblica italiana che si disinteressa totalmente di tutto ciò che accade al di fuori del proprio orticello. D’altronde “la classe dirigente di un Paese è lo specchio della sua società…”.

Ascesa e declino della politica estera italiana

Storicamente, finito il roboante periodo del governo fascista, caratterizzato da incontri scenici, parate dimostrative e prove di forza, la nostra politica estera ha seguito sempre le stesse regole comportamentali. Nel delicato periodo della Guerra fredda, dove l’Italia aveva abbracciato la causa americana, abbiamo goduto di governi che, grazie anche all’appartenenza dei grandi leader delle famiglie politiche globali, tutelavano l’interesse nazionale all’estero e, in alcune occasioni, si spingevano oltre, fiutando esperienze di grande valore storico ed economico. Si pensi al caso di Agip, sapientemente trasformata da carrozzone che bruciava mezzo miliardo al giorno a colosso petrolifero di livello globale grazie all’intelligenza politica e imprenditoriale di un certo Enrico Mattei. Oppure ai viaggi dell’onorevole Giorgio La Pira in Vietnam per trovare un accordo di pace con gli Stati Uniti, all’apertura di Pietro Nenni alla Cina di Mao e ai buoni uffici presso l’Unione Sovietica.

L’Italia ha saputo esprimere personaggi del calibro di Alcide De Gasperi e di Altiero Spinelli, propiziatori di un progetto come quello delle Comunità Europea. Statisti al posto giusto e al momento giusto: un’Italia che aveva bisogno di una profonda ricostruzione dopo una guerra fratricida.

Il percorso avviato da questi colossi della politica non richiedeva la spettacolarizzazione oppure la personalizzazione delle relazioni estere. La politica internazionale esigeva serietà, poiché c’era una certa coscienza dell’importanza di ricostruire un Paese anche sulla base dei rapporti con gli altri. Servivano fondi, serviva influenza, serviva una proiezione di potenza.

Da questi tre pilastri deriva il neo-atlantismo, una strategia politica e geopolitica mirante a dare un “colpo al cerchio e uno alla botte” e che viaggiava su due binari paralleli e cioè quello dell’obbedienza agli Stati Uniti e quello del dialogo con i Paesi del Medio Oriente e del Terzo mondo. Tutto ciò ha reso l’Italia una media potenza continentale e punto di riferimento del dialogo mediterraneo.

I cambiamenti degli anni Ottanta della situazione politica interna e internazionale, con l’avvicinamento del Partito Comunista italiano alla causa governativa e la distensione tra Reagan e l’Unione Sovietica, iniziarono a smontare le sovrastrutture su cui si reggeva la politica estera italiana, la quale sfruttava alla perfezione le divisioni storiche che la situazione sovranazionale aveva creato in quarant’anni.

Arriviamo così agli anni Novanta, un periodo in cui non si necessitava solo di una ricostruzione interna bensì anche di una a livello internazionale. C’era da inserirsi all’interno della già funesta corsa verso la modernizzazione di impianti e istituzioni, avviata negli anni ’80 e che l’Italia aveva colpevolmente ritardato. E c’era, soprattutto, la necessità di dialogare con i Paesi emergenti e con quelli dell’ex blocco orientale. E chi meglio dell’Italia poteva agire da interlocutore? Entrambe le corse, punto focale della ricostruzione estera dell’immagine italiana, furono perdute. Lo scandalo di Mani Pulite rubò la scena a vicissitudini di maggiori importanza, la classe dirigente primo-repubblicana fu spazzata via e nessuno riuscì a rimpiazzarla. Anzi, “i partiti smisero di fare politica, compresa quella estera“, parafrasando una frase di Enrico Berlinguer.

I partiti smisero di fare politica e si misero a raccogliere consensi, il primo a intuire questo cambiamento fu Silvio Berlusconi, il quale proponeva un’immagine dell’italiano talmente alternativa da essere presa sul serio: un imprenditore che si era fatto da solo, apparentemente svincolato da ogni attività politica e che si prefiggeva l’obiettivo di impedire l’ascesa del comunismo in Italia.

Cambiò anche il rapporto fra opinione pubblica e politica estera, esaltando in primis il ruolo del Presidente del Consiglio, trasformando i summit fra capi di governo in eventi “pop”. La nostra presenza internazionale è stata sempre più spesso filtrata da Berlusconi che è divenuto il mediatore unico tra leader internazionali e opinione pubblica. Un populismo mediatico che potrebbe riassumersi in tre modelli di personalizzazione: di successo, di frustrazione e di assenza.

Nella personalizzazione di successo, a un’opinione pubblica informata sui contesti strategici, la personalizzazione sostituisce l’illusione mediatica di offrire all’opinione pubblica un posto di prestigio nel salotto del potere, dove l’importante non è riuscire a strappare qualche risultato ma dare l’illusione all’opinione pubblica di poterlo fare. Non conta l’autorevolezza istituzionale dell’incontro o del summit, bensì il compiacimento popolare che tale evento può suscitare. Gli incontri tra Berlusconi e Gheddafi, messi in risalto dalla stampa anche quando si trattava sul nulla o su qualcosa che non favoriva il nostro Paese, ne sono l’esempio.

Nel secondo caso, la sostanziale schematicità delle istituzioni europee, Commissione, Consiglio e Parlamento, impedisce la personalizzazione. I suoi leader non hanno séguito nell’opinione pubblica e la difficoltà di personalizzare la politica estera dell’UE è aggirata con iniziative singolari miranti ad instaurare rapporti diretti con i leader dei singoli Paesi. Berlusconi, pur avendo consolidato il suo gradimento in Italia, non è mai riuscito a conquistare la stima dei leader europei.

Infine, nel caso della personalizzazione assente, viene consacrato il completo disinteresse per gli attori nazionali che operano in aree strategiche, dalle Ong alle comunità italiane nel mondo, dai diplomatici alle imprese. Se queste non sono comprese nella ristretta cerchia del Premier, vengono automaticamente escluse da ogni tipo di interesse.

Inoltre, la presenza al governo di due partiti ostili all’integrazione europea, come la Lega Nord e Alleanza Nazionale, portarono gli alleati sovranazionali a dubitare fortemente delle buone intenzioni dell’Italia. Nonostante la propaganda collochi Berlusconi nel novero dei fautori del processo di integrazione, si può affermare che il suo fu più un tentativo di non restare isolato e di guadagnarsi qualche limitata simpatia strategica.

Il forte appoggio della politica berlusconiana nei confronti delle iniziative delle amministrazioni statunitensi, tradotto in partecipazioni politico-militari in attività di promozione di sicurezza e stabilizzazione della vasta area dell’Afghanistan e del bacino del Mediterraneo, contribuirono a sfaldare il cordiale rapporto di mutua amicizia con il mondo arabo, trasformando l’Italia da punto di riferimento per il dialogo inter-continentale in piccola potenza asservita agli scopi di Washington.

Il percorso avviato dai ministeri del periodo primo-repubblicano non si basava né sulla spettacolarizzazione, né sul personalismo. Al contrario, mirava a creare e a gestire consenso e buoni uffici verso una media potenza, consapevole dei propri limiti ma anche delle proprie possibilità.

Con l’avvento della Seconda Repubblica, sia i limiti che le possibilità svaniscono nel quadro di un personalismo bieco, rozzo e becero mirante più a rendere appetibili a favore di telecamere gli incontri, anche inconcludenti, che a portare a casa dei risultati concreti. Stile ed etichetta paiono essere scomparsi dal vocabolario dei diplomatici, sempre più personaggi improvvisati e alle prime armi, senza la benché minima conoscenza della realtà che li circonda e senza una mirata strategia politica che non si basi sulle dinamiche di partito.

Come predicava Carlo Morandi nel secondo dopoguerra, storico e giornalista che di politica estera se ne intendeva, il Ministero degli Affari esteri doveva essere scevro di interessi di partito. Un ministero depoliticizzato, composto da personaggi di alto rango diplomatico e che di affari internazionali se ne intendono e, dunque, dotati di lungimiranza politica e soprattutto geopolitica o geostrategica, in grado di enfatizzare la posizione storica e geografica dell’Italia senza eccedere oltre i suoi limiti. Tutti aspetti che latitano all’interno dell’attuale classe dirigente, la quale agisce per logiche preconfezionate e senza alcuno spirito di iniziativa. Stesso discorso può farsi in Europa, la quale non ha una vera e propria politica estera, nonostante esista la carica dell’Alto Rappresentante. Una cronica debolezza che, nel corso degli anni, ha portato gli stati extra-continentali a contendere le zone di influenza degli stati europei, ingarbugliati nelle dinamiche e nelle difficoltà sovranazionali. L’Italia, ad esempio, non può gestire autonomamente il dossier libico a causa dello strapotere militare turco e russo, di gran lunga superiore a quello italiano.

Nuove tendenze e l’importanza di una politica estera

Le azioni politiche dei diversi partiti che si sono succeduti negli ultimi trent’anni, hanno totalmente accantonato ogni qualsivoglia interesse estero, accodandosi alle scelte dei grandi attori internazionali, prediligendo la politica interna che, per chiamarla tale, dovrebbe essere comunque ben fatta.

Accantonando tutto ciò che accadeva al di fuori dei confini nazionali, le aziende del Belpaese operanti all’estero sono rimaste senza nessun tipo di tutela, e hanno dovuto adeguarsi, mentre le comunità di italiani all’estero sono sopravvissute senza la “vicinanza” della madre patria. Solo quando si tratta di votare, si riaccende l’interesse per “i seggi all’estero“, confermando, ancora una volta, le profetiche parole del tanto compianto ex segretario del PCI. Stesso discorso nel settore energetico, con l’Eni che ha dovuto provvedere a dotarsi di una strategia internazionale per far fronte alla cronica assenza di tutela statale nella conduzione di trattative. Nel corso degli anni è stata coniata l’espressione “l’Eni fa la politica estera meglio di Roma“. Analogamente, anche Fincantieri ha seguito questa direzione.

L’opinione pubblica non si pronuncia più su temi, argomenti, decisioni dove l’Italia potrebbe essere la voce dominante. I media enfatizzano incontri inconcludenti, i giornali dedicano sempre meno attenzione alla politica estera e colossi come Il Mondo e l’Europeo hanno chiuso i battenti o non vengono più considerati come allora.

La naturale conseguenza di questa devianza, è che i politici parlano sempre meno, oppure poco e male, della politica estera, riducendola ad un “noi contro di loro“, un concetto così semplicistico e superficiale che potrebbe essere adoperato per dimostrare la cronica ignoranza di coloro che si candidano a governare il Paese. Se dessimo un’occhiata ai programmi elettorali dei partiti, all’interno della sezione “estero” troveremmo solo slogan e quattro “righe di accompagno“. Niente di più. Dinanzi ai problemi, è abitudine della politica di scaricare tutto sulla diplomazia, sul Corpo diplomatico, sui Capi missione e sulle Ambasciate per smussare, mediare, aggiustare e calmare gli animi.

La politica estera, all’epoca, era gestita anche per promuovere le eccellenze di un Paese. Una buona politica estera attira gli investitori. La crisi economica e l’elevato debito pubblico non hanno aiutato in questi anni, è vero, ma è qui che si inserisce la profetica “buona impressione” esercitata dai governi con una precisa strategia, anche mediatica. Nel nostro caso, una volta si andava all’estero per promuovere il settore energetico, con l’Eni ed Enrico Mattei tra Italia, Europa, Medio Oriente e Nord Africa e con Giulio Andreotti e il “Mediterraneo Allargato“, un bacino di idee e di diplomazia.

Le nuove tendenze della politica estera, sempre proiezione dell’interesse nazionale, come l’iper-personalismo, il protezionismo e l’accantonamento di quella che in gergo è stata ribattezzata “attività di tessitura silente“, paiono aver avvinghiato non solo l’Italia ma l’intero Occidente. Con l’elezione di Donald Trump, uomo dall’istrionica presenza ma dai contenuti abbastanza discutibili, basti vedere i suoi goffi movimenti in ambito estero come la (persa) guerra commerciale con la Cina, le difficoltà in Medio Oriente e i dazi imposti all’Europa, gli Stati Uniti hanno abbandonato il ruolo di “ordinatore” dei rapporti internazionali, con conseguenze visibili anche in Europa, la quale appare più divisa che mai.

Di questa situazione ne stanno approfittando le potenze orientali. La Russia sembrerebbe essersi riversata negli spazi lasciati vuoti da Europa e Stati Uniti (Siria e Libia), seguita a ruota dalla Turchia. Entrambe hanno impostato la propria campagna sull’utilizzo spregiudicato della forza, della violenza e della propaganda. La Cina ha messo gli occhi sul mercato unico europeo, il più grande al mondo. Sembrerebbero essere lontani quegli anni in cui Aldo Moro inaugurava la “fase mediterranea” della politica estera italiana, la quale sfruttava la ricostruzione post-coloniale a sud e post-bellica al nord per dotarsi di una politica estera indipendente, ma fedele al Patto Atlantico, e aperta nei confronti dei Paesi arabi.

Il mondo occidentale, abituato a dormire sugli allori di un passato glorioso, sta pericolosamente prestando il fianco alle nuove potenze emergenti che, con metodi spregiudicati, insidiano il suo predominio, anche culturale. Trascuratezza, velleità, ignoranza e presunzione. Sono queste le cause che hanno portato questa parte del globo a mettere da parte la politica estera. Ripensare il proprio rapporto con gli altri, in questo vecchio scacchiere pieno di nuovi attori convergenti e divergenti è fondamentale per scrutare il segno dei tempi. Per sopravvivere alla competizione globale è utile tessere una strategia, e solo con una vera politica estera è possibile farlo.

Donatello D’Andrea

 

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