Lavoro: persi 60mila posti “fissi”, allarme donne

Una operaia al lavoro in una industria. metalmeccanica
Una operaia al lavoro in una industria metalmeccanica (Ansa)

ROMA. – L’Istat fotografa un mercato del lavoro ancora in sofferenza. Ma quel che colpisce è la spaccatura tra gli uomini, per cui si iniziano a vedere segnali incoraggianti, e le donne, sempre più estromesse.

I numeri dicono che a giugno si contano 46 mila occupati in meno a causa dell’emorragia che ha colpito la componente femminile (-86 mila), mentre quella maschile fa progressi (+39 mila). E stavolta, al contrario di quel che si era verificato nei mesi precedenti, a perdere terreno sono i contratti a tempo determinato, con 60 mila posti fissi andati in fumo.

Fa ancora impressione il confronto con il periodo pre-Covid, da febbraio l’occupazione è scesa di 600 mila unità. Il secondo trimestre porta un saldo negativo di 459 mila, che diventano 752 mila su base annua.

La disoccupazione è un po’ risalita, ora è all’8,8%  ma senza ammortizzatori sarebbe stato molto peggio, avverte la Bce. La disoccupazione “sarebbe schizzata a ridosso del 25% includendo i lavoratori in Cig a zero ore”.

Le medie nascondono però i divari di genere. “Le donne stanno pagando un prezzo altissimo a causa della crisi da Covid-19”, twitta la ministra per le Pari opportunità e la Famiglia, Elena Bonetti, secondo cui dall’Istituto di statistica arriva una conferma “drammatica”. Serve uno strumento “shock”, come  “la decontribuzione del lavoro femminile”, suggerisce. L’altro anello debole sono i giovani, rispetto a maggio mancano all’appello 75 mila under35, mentre crescono gli occupati over50.

Se durante il lockdown era stato chiaro come la contrazione fosse tutta da attribuire ai rapporti di lavoro a termine non rinnovati, adesso che cominciano a calare i tempi indeterminati la situazione cambia. Eppure fino al 17 agosto il blocco dei licenziamenti agisce in maniera generalizzata.

Per Confcommercio probabilmente è “cominciato il processo, in parte inevitabile, di riduzione della base produttiva, solo minimamente compensato da coraggiose iniziative di alcuni imprenditori”. In altre parole ci sarebbero delle aziende che non hanno ingranato la marcia con la riapertura. Falliscono e i lavoratori di fatto perdono il posto, cercando magari di agganciare la Naspi, l’assegno di disoccupazione.

Ma se così fosse dovrebbero scendere sia gli occupati che le occupate. Invece la riduzione si concentra esclusivamente sulle donne, almeno a giugno. Torna alla mente il report diffuso il mese scorso dall’Ispettorato nazionale del Lavoro (Inl), per cui in un solo anno, il 2019, si sono state 37 mila neo-mamme che hanno presentato le dimissioni. Scelte volontarie ma spesso spinte da carichi familiari altrimenti non gestibili. Carichi che sono ricaduti sulle donne in maniera ancora più pesante dopo l’epidemia.

Vista la situazione, poi, il rischio di irregolarità, a danno delle categorie più fragili, va monitorato. Inoltre a inizio luglio l’Ispettorato aveva fatto sapere che erano in corso “verifiche su oltre mille licenziamenti avvenuti nel periodo di blocco previsto dalle norme”, con una continua richieste da parte delle aziende di informazioni “sulla possibilità di licenziare in ragione dell’impossibilita’ di continuare l’attività d’impresa”.

Oggi infatti l’uscita dal lavoro è chiaramente consentita in caso di licenziamenti disciplinari, dimissioni, risoluzioni consensuali e pensionamenti. Sicuramente anche quest’ultimi possono aver inciso, con donne che magari si sono affrettate al ritiro. Molte per esempio stanno raggiungendo adesso, dopo l’assorbimento degli effetti della riforma Fornero, i requisiti per la vecchia. Di certo il turnover si è pressoché bloccato.

Tra l’altro aumentano anche le inattive (+31 mila). Al contrario sale il numero degli uomini che si attivano, cioè che tornano sul mercato del lavoro. Seppure non tutti vengono accontentati. E la disoccupazione che infatti sale più per i maschi.

La Cgil fa notare come le difficoltà penalizzino anche i giovani, con i senza lavoro al 27,6%. É “evidente fame di lavoro”, commenta il sindacato. La Cisl parla di dati “allarmanti”. La Uil ricorre alla metafora: “la febbre del malato è, purtroppo, molto alta”.

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