Tra due fuochi: il ruolo dell’Europa nello scontro USA-Cina

Tra due fuochi: il ruolo dell'Europa nello scontro USA-Cina
Tra due fuochi: il ruolo dell'Europa nello scontro USA-Cina (FOTO Neos)magazine

Una settimana fa la Cina ha annunciato la chiusura del consolato statunitense a Chengdu, uno dei sei che Washington aveva aperto nella Repubblica Popolare. Non si tratta, comunque, di un atto isolato ma di una risposta politica allo smacco degli americani che avevano deciso di chiudere un consolato cinese a Houston, accusando Pechino di svolgere attività di spionaggio e di raccolta illegale di informazioni. Un sospetto acuito e confermato dal plateale gesto dei funzionari cinesi di dare fuoco a documenti non specificati in vista della chiusura della sede diplomatica.

Al contrario di quanto si creda, se uno stato decide deliberatamente di chiudere un ufficio diplomatico, non significa interrompere i rapporti tra due Paesi o l’insorgenza di una crisi a cui non si possa rimediare in alcun modo. Si tratta, però, di un gesto di una certa rilevanza. Soprattutto se i due stati in questione sono Cina e Stati Uniti.

In questo caso, la chiusura degli uffici è il segno che i rapporti tra i due Paesi stanno pericolosamente peggiorando. Il momento è il più teso dal 1972, anno in cui Nixon avviò il processo di riconoscimento della Repubblica Popolare Cinese, fino ad allora tenuta al margine della scena politica internazionale.

La situazione attuale non si è creata improvvisamente. Da diverso tempo i rapporti tra la Cina e gli Stati Uniti sono peggiorati. In particolare negli ultimi due anni ce ne sono stati parecchi di scontri. C’è la guerra commerciale, basata sull’imposizione di dazi su centinaia di prodotti dell’uno e dell’altro; la repressione delle proteste di Hong Kong dopo la legge sulla sicurezza nazionale che ha costretto gli USA ad interrompere ogni contatto privilegiato con l’ex colonia britannica. Ci sono le accuse che Donald Trump ha rivolto alla Cina, accusandola di aver tenuto nascosto la pandemia e di essere responsabile di tutto ciò che è accaduto dopo. E poi ci sono state le recenti limitazioni per l’ingresso di diplomatici e studenti negli Stati Uniti, le proteste e le sanzioni americane per la repressione degli uiguri e l’espulsione dei giornalisti americani dalla Cina.

Ma non è tutto. Cina e Stati Uniti stanno litigando anche per qualcosa di ancor più importante: l’egemonia globale. La rivalità dei due Paesi in questo senso, è stata amplificata dalla volontà di assumere posizioni sempre più intransigenti. Da tempo, la Cina si preoccupa poco delle eventuali reazioni degli altri Paesi a politiche aggressive o controverse. Prendiamo il caso di Hong Kong, dove Pechino ha emanato una legge sulla sicurezza che di fatto ha azzerato l’autonomia del Porto Profumato. Anche nei mari, sull’Himalaya e con Taiwan, il dibattito pubblico sta diventando sempre più aperto.

Anche gli Stati Uniti si dimostrano più ostili nei confronti di Pechino. Si tratta di un atteggiamento di evidente belligeranza, o imprudenza, che non è nuovo all’amministrazione di Donald Trump. Già il segretario di Stato, Mike Pompeo, lo aveva adottato nei confronti dell’Iran, del Venezuela e in genere nei confronti di quei regimi che hanno qualcosa in comune con i suddetti. Proprio qualche giorno fa il segretario ha pronunciato una dura requisitoria nei confronti di Pechino, sottolineando come la Cina non debba più essere coinvolta negli affari internazionali.

Non è chiaro se gli USA abbiano una strategia precisa per il contenimento cinese o per la risoluzione di un’eventuale escalation diplomatica dopo la reciproca chiusura di alcuni consolati. Non si sa nemmeno se tutto questo baccano non sia stato generato dalla stessa amministrazione statunitense per favorire Trump in vista delle elezioni presidenziali. Lo stesso discorso potrebbe farsi per la Cina, la quale ha preferito chiudere il consolato a Chengdu e non quelli più grandi e simbolicamente importanti di Hong Kong, Shangai e Guangzhou. Probabilmente Pechino ha voluto evitare ogni tipo di eccesso nelle ritorsioni. Ciò non toglie che la tensione tra i due Paesi si tagli con il coltello.

La posizione dell’Europa

Durante la pandemia la Cina ha concentrato tutti i suoi sforzi sull’Europa, attraverso l’invio di tonnellate di materiale sanitario, mascherine e medici per aiutare i Paesi più in difficoltà. Un gesto che non è sfuggito a Washington e che, ovviamente, ha l’obiettivo di riabilitare l’immagine di Pechino.

La pandemia, però, è soltanto l’ultimo dei tasselli che la Cina ha inserito nel suo grande mosaico diplomatico nell’Unione Europea. Il resto, passa attraverso un ambizioso progetto di espansione geo-economica e geopolitica intitolato “Nuova Via della Seta“.

Il mercato europeo, il più ricco e grande al mondo, fa gola a diversi competitor. La Cina, nello specifico, sente la necessità di esportare il suo surplus commerciale in Europa, lottando contro la concorrenza e, di fatto, eliminando la presenza americana sostituendola con la propria.

Nel corso degli anni i cinesi hanno affermato, in modo lento ma intelligente, la propria presenza sul suolo europeo attraverso l’acquisto, la costruzione o il finanziamento di infrastrutture strategiche. Un esempio su tutti potrebbe essere il trasporto marittimo. Già nel 2010, nel pieno della sua crisi del debito, la Grecia si vide costretta a cedere il 51% del porto del Pireo a Cosco, il colosso cinese della logistica marina. Un caso isolato? Non proprio.

Negli anni successivi, la stessa compagnia si è aggiudicata il 51% del terminal di Valencia e Bilbao, quote di minoranza dei porti di Anversa, Rotterdam, Las Palmas e il 90% del controllo del porto belga di Zeebrugge. Anche in Italia la presenza cinese si sta rafforzando. Appartiene a Pechino il 49,9% del porto di Savona-Vado Ligure ma non fa mistero che risultano corteggiati anche i poli di Genova, Venezia e Trieste.

La propaganda pro-Pechino di questi ultimi mesi, rafforzata anche dalla solidarietà attorno alla vicenda del coronavirus, ha rafforzato enormemente l’immagine e la considerazione degli europei nei confronti del colosso asiatico. Sui social si consumano gli elogi per la gestione cinese della pandemia e si sottolineano, senza le dovute conoscenze, gli errori compiuti dall’Unione Europea.

A rendere il clima ancora più preoccupante è una relazione dei servizi segreti del Belgio che sottolinea come tra il 2010 e il 2016 spie cinesi avessero messo nel mirino l’industria biologica del Paese. Ma anche il colosso farmaceutico inglese GlaxoSmithKline era finito nel mirino di Xi Jinping.

Pare evidente che l’Europa durante questi anni sia stata molto ingenua e che la Cina, sfruttando la crisi e la ricerca disperata di liquidità da parte dei Paesi, ne abbia approfittato alla grande. Gli attacchi esterni al patrimonio industriale e politico europeo danno la misura dell’emergenza in atto. L’Europa dovrà trovare una nuova collocazione internazionale, affermando la propria sovranità e costruendosi una posizione privilegiata nella lotta tra colossi del calibro di Russia, Cina e Stati Uniti.

La Cina non è poi così lontana…

Il soft power cinese in Europa sta diventando asfissiante e solo pochi sembrerebbero accorgersene. Questo perché, soprattutto in Italia, c’è un evidente disinteresse per ogni cosa che non concerne la politica interna. Per avere un’idea di quanto la propaganda cinese sia penetrata nei nostri confini, basterebbe prendere un esempio: la Serbia.

Circa tre mesi fa, in un parco pubblico nei pressi del Parlamento di Belgrado, è stato appeso uno striscione recitante “Cinesi e serbi, fratelli per sempre“. Il messaggio si è unito a quelli di cartelloni pro-cinesi che proliferavano in città durante il picco della pandemia, dopo che il presidente Vucic ha accolto trionfalmente i medici cinesi.

Lo striscione non è un caso isolato oppure un eccesso di zelo, ma rappresenta l’essenza della propaganda pro-cinese della Serbia. Nel giro della notte, aveva sostituito uno striscione chiamato “Il Muro delle Lacrime” che conteneva numerosi messaggi anti-NATO accanto alle immagini delle vittime serbe della guerra del Kosovo. Nato, Kosovo e Cina sono tutti temi sui quali Vucic cerca di aggirare i suoi rivali interni rafforzando il nazionalismo della sua politica.

Il messaggio filo-cinese fa parte di uno sforzo propagandistico più grande che inizialmente sembrava essere stato progettato per creare entusiasmo per la Cina in Serbia. Si tratta di una robusta campagna diplomatica sui social, e non solo, che ha bombardato l’opinione pubblica con messaggi e slogan che elogiano la risposta del governo serbo alla pandemia, evidenziando la preziosa amicizia dell’amica Cina, contro il disinteresse dell’Europa.

La campagna non è, come potrebbe sembrare, un confronto Cina-UE, come accaduto in Italia, ma serve ad elogiare l’operato del governo locale, con la Cina partner numero uno.

La Serbia, però, non è l’unico Paese in cui il discorso pubblico sulla Cina si allinea agli interessi dei principali attori interni. Anche in Ungheria, i regolari comunicati stampa elogiano i nuovi arrivi dei dispositivi di protezione da Pechino. Inoltre, il Parlamento, controllato dal partito del Primo ministro Viktor Orban, ha approvato una legge per secretare di dieci anni i dettagli della costruzione della ferrovia Budapest-Belgrado, finanziata dalla Cina.

Anche l’adesione italiana alla Nuova Via della Seta nel 2019, risponde all’ampio lavoro geopolitico compiuto dalla Cina per penetrare economicamente in Italia. Stringere singoli accordi con colossi economici, militari, politici e demografici senza un’adeguata copertura europea significa contrattare partendo da una posizione di relativo svantaggio. Quindici trilioni di dollari di PIL contro due: questo è il confronto economico tra Italia e Cina.

Tempo di scelte

Tutto ciò solleva delle importanti domande relative alla capacità europea di elaborare delle strategie di pubbliche relazioni per contrastare adeguatamente le critiche alla sua risposta alla pandemia e per mettere all’angolo la propaganda russo-cinese dilagante nel continente.

L’approccio europeo alla battaglia delle narrazioni è stato quello di aumentare l’assistenza finanziaria agli stati candidati e al suo vicinato, promuovendo la visibilità delle donazioni e i messaggi di solidarietà alla regione. Nel complesso l’UE ha stanziato 3,3 miliardi di euro in varie forme di assistenza per i Balcani occidentali. Ha fornito, nello specifico, 93 milioni di euro alla Serbia, la quale a sua volta beneficerà di 455 milioni di euro in sovvenzioni e prestiti dell’UE per un pacchetto di ripresa economica regionale destinato a sostenere il settore privato. La Banca europea per gli investimenti, dal canto suo, fornirà 1,7 miliardi di euro in prestiti per sostenere la ripresa economica nella regione.

Il contenuto degli aiuti di Russia e Cina al governo serbo non sono stati resi pubblici in nessun momento. Si conosce solamente l’entità di alcune sovvenzioni cinesi, tra il 2000 e il 2018, per un valore stimato di 30 milioni di euro. Nello stesso periodo l’UE ha fornito finanziamenti alla Serbia per 3,6 miliardi di euro. Tuttavia, secondo un sondaggio diffuso tra febbraio e marzo, l’opinione pubblica serba ritiene che la Russia sia il secondo maggior donatore del Paese, dietro la Cina.

Queste percezioni non sono il risultato della battaglia delle narrazioni attorno al coronavirus, ma piuttosto anni e anni di attenta inquadratura da parte dei media serbi controllati dal governo.

L’UE può fare ancora meglio in questa corsa alla legittimità popolare. Ma per farlo deve prendere le redini dei propri finanziamenti ed eliminare la possibilità di dare adito a rimostranze pubbliche e propaganda politica da parte di attori che utilizzeranno questa crisi per cementare il proprio potere, proteggendo gli alleati da qualsiasi responsabilità. Placare gli autocrati tramite lauti finanziamenti è sbagliato e controproducente. Lo si è visto anche con Erdogan e i sei miliardi concessigli per bloccare i migranti della rotta balcanica.

Urge la formazione di un canale preferenziale attraverso cui le istituzioni europee finanzino direttamente enti e progetti, fornendo al contempo una maggiore supervisione dei fondi di esborso. Così facendo se ne ricaverebbe anche in “buon governo” e “trasparenza”. In seconda istanza si rende necessaria un intervento legislativo che serva a fare degli screening sugli investimenti stranieri.

Nel caso cinese, l’attuale equilibrio su cui si poggiano le relazioni sino-europee ha avuto inizio con la crisi del 2008. In fondo, Pechino aiutò la ripresa economica del continente acquistando debito e attività sull’orlo del fallimento. Mentre, dal punto di vista politico, evitò di unirsi alla Russia e al regno Unito durante il periodo della Brexit. Le cose sono cambiate nel 2019, quando delusa dal mancato accesso al mercato interno cinese e allarmata dal nazionalismo cinese, la Commissione Europea diffuse un rapporto in cui definiva il dragone come “un rivale sistemico che propone metodi di governance alternativi“.

Pechino fa politica con l’economia, questo è chiaro e da anni, ormai, la Cina è il secondo partner commerciale dell’Unione Europea, dopo gli Stati Uniti, ma i rapporti sono segnati da un rosso costante per Bruxelles. Una mancanza di reciprocità nei vantaggi economici bilaterali che spaventa molto l’Occidente.

Tra agosto e novembre dello scorso anno, con l’aumentare delle tensioni politiche in Hong Kong, molti Paesi europei si sono posti un interrogativo sull’opportunità di stringere accordi commerciali con uno stato che reprimeva il dissenso politico. Un po’ quello che l’Europa dovrebbe fare in occasione della vendita delle armi a regimi liberticidi.

Il problema, in questo senso, è la mancanza di una visione comune, di una politica estera condivisa dalle istituzioni europee e non lasciata nelle mani dei singoli stati. Al giorno d’oggi, il ruolo dell’Alto rappresentante è esautorato dal Consiglio dell’Unione che riunisce i singoli ministri. Un esempio di quanto i solleciti ad una maggiore disciplina collettiva nei confronti della Cina non siano rispettati, è proprio l’Italia. Il Ministro degli Affari esteri, Luigi Di Maio, da tempo oscilla tra un atlantismo marcato e un corteggiamento spudorato delle posizioni cinesi. In diplomazia queste cose si pagano. Così come produrrà certamente degli effetti il memorandum d’intesa sulla BRI, firmato da Italia e Cina nella scorsa primavera, che trasforma l’Italia nella prima potenza del G7 ad appoggiare l’iniziativa, promuovendo l’uso e l’abuso di Trieste e Genova nelle nuove rotte del commercio (cinese) internazionale.

Un’intesa che solleva qualche inquietudine.

La risposta che il mondo diede alla crisi del 2008 vide USA e Cina schierati sullo stesso fronte. Oggi, il virus, è solo l’ultima delle tensioni esistenti tra i due Paesi. L’Europa appare scoperta, in preda ad un smarrimento politico dovuto all’assenza della leadership americana che ha sempre coperto i “buchi” politici e diplomatici europei, impedendo proiezioni di potenza altrui.

Oggi con “l’America first” di Donald Trump, l’UE è chiamata ad agire da sola, a fare scelte decisive e tempestive. In altri tempi, per motivi culturali e non solo, la scelta sarebbe stata scontata ma in tempi di “nuova guerra fredda”, tutto è possibile.

Donatello D’Andrea