Grappelli: “In viaggio con il mio violino

LONDRA – “Se avessi studiato il violino in modo tradizionale, non avrei mai potuto suonare a modo mio. L’approccio con la musica di strada, quella che sboccia e fiorisce negli angoli più disparati, la musica dei balli e quella suonata nei cinema muti dell’epoca, lontano dal conservatorio, mi ha fatto diventare quello che sono. Nel 1908 non esistevano radio, televisione, dischi: la musica si faceva per strada. Sono nato proprio nel 1908, il 26 gennaio, all’ospedale Lariboisiére, alle sette del mattino, da padre italiano e madre francese, di Calais. Mio padre, Ernesto, era emigrato in Francia a diciannove anni, ma ancora oggi non so il perché”.

Così inizia “In viaggio con il mio violino”, autobiografia di Stéphane Grappelli pubblicata nel 1992, in francese, con il titolo originale “Mon violon pour tout bagage” e ora tradotta in italiano dalla giornalista Paola Rolletta. Coedizione tra l’Associazione Gottifredo, che ne ha acquistato i diritti dalla prestigiosa casa editrice parigina Calmann Levy, e Ottotipi, editore romano specializzato in critica e storia della musica, il libro è un avvincente narrazione di viaggi, incontri, concerti, che ci fanno rivivere la favola di un ragazzo povero giunto alla celebrità, ma senza mai dimenticare le sue origini. Violinista jazz franco-italiano, fondatore nel 1934 del “Quintette du Hot Club de France” insieme al chitarrista Django Reinhardt, Stéphane (all’anagrafe Stefano) Grappelli è considerato “il nonno dei violinisti jazz” e ha continuato a tenere concerti in tutto il mondo fino all’età di ottant’anni.

“Devo ad Andrea Camilleri la conoscenza di Grappelli”, rivela Paola Rolletta. E prosegue:

“Il suo primo racconto, ‘Sweet Georgia Brown’, l’autore siciliano lo scrisse ascoltando e ispirandosi al pezzo classico dell’Hot Club de France, con Django alla chitarra e Stéphane Grappelli al violino”.

Rolletta, proprio come il musicista, è originaria di Alatri, graziosissima cittadina a un’ora da Roma, nel cuore della Ciociaria, conosciuta per le sue mura ciclopiche. È al suo rientro in città, dopo molti anni vissuti all’estero, che la giornalista riscopre Grappelli.

“Lo spirito del grande violinista aleggiava ad Alatri – racconta – e io non lo sapevo. Qualche tempo dopo il mio ritorno ho scoperto, per caso, che un pugno delle sue ceneri sono sparse ai piedi della Torre Grappelli, nello stesso luogo dove riposano quelle di suo padre Ernesto. Era stato il suo ultimo desiderio. Le sue ceneri sparse nei luoghi più amati: Parigi, Londra, New York e, soprattutto, Alatri, nella casa d’origine della sua famiglia. In quel luogo, oggi, c’è un piccolo arbusto che d’inverno si adorna di bacche bianche. A quel punto – continua – mi sono procurata il libro, l’ho divorato in un battibaleno e poi mi sono messa a tradurlo, con furia. Ho cercato i musicisti che l’hanno accompagnato negli ultimi anni: ho scritto a tutti. Ho cercato di sapere ogni cosa. In questa ricerca spasmodica, ho avuto il privilegio di diventare amica di Joseph Oldenhove, il segretario di Stéphane; di parlare con Evelyne, la figlia. Insomma, di entrare nella vita di questo grande musicista che ha fatto la storia del violino jazz”.

Ricostruire la vita del musicista ha richiesto molto tempo, fino all’incontro virtuale con Martin Taylor, il chitarrista jazz scozzese che ha suonato con Grappelli e che ha prodotto un bellissimo documentario/intervista insieme a lui.

“Stéphane Grappelli è probabilmente il più grande violinista jazz di tutti i tempi”, afferma Paola Rolletta con convinzione. E aggiunge:

“In questa biografia ci sono le testimonianze di tutti i grandi musicisti con i quali ha suonato, con i quali ha inciso molti dei dischi, con i quali ha condiviso la vita di stenti e gli onori dei successi, dei club e dei festival, di invenzioni musicali. Collaborazioni con i migliori musicisti del Novecento: da Coleman Hawkins a Oscar Peterson e al violinista classico Yehudi Menuhin. Sono talmente tanti da far girare la testa”.

Malgrado sia nato a Parigi e abbia viaggiato moltissimo, Grappelli è sempre rimasto legato alle sue origini italiane. Nella sua casa parigina conservava, infatti, numerosi libri su Alatri, che mostrava con orgoglio a chiunque andasse a trovarlo.

La sua infanzia fu molto difficile. Sua madre morì quando Stéphane aveva solo quattro anni e, allo scoppio della Prima guerra mondiale, suo padre dovette lasciarlo in un orfanotrofio perché costretto ad arruolarsi. Quando la guerra finì, padre e figlio tornarono a vivere insieme, seppur in gravi ristrettezze economiche.

Stéphane imparò a suonare il violino molto presto: un violino di seconda mano, che il padre Ernesto gli aveva regalato e che rimarrà il suo talismano per sempre, anche quando raggiungerà il successo e verrà osannato nei teatri di tutto il mondo.

“Con quel violino – spiega Rolletta – guadagnava pochi spiccioli suonando nei cinema. Suonava Mozart, soprattutto, finché non conobbe Debussy, Ravel, e il suo mondo musicale si aprì”. Lo racconta Grappelli stesso, nella sua biografia: “Nei cinema, dovevo suonare Mozart soprattutto ma nei film divertenti mi permettevano di suonare Gershwin. Dopo ho scoperto il jazz e la mia vocazione, e ho detto ‘ciao ciao Amadeus’!”.

La prima volta che l’artista visitò il suo luogo d’origine, in Italia, fu subito dopo la Seconda guerra mondiale: lo fece sfruttando l’occasione di alcuni ingaggi a Roma, Firenze, Palermo, per sapere di più di sé e della sua storia.

“Mentre traducevo i ricordi racchiusi nel libro – rivela Rolletta – “me l’immaginavo con una delle sue camicie supercolorate, a fiori, con quella sua aria ironica e gioviale, nelle vie di Alatri. Magari, mentre passeggiava, Stephane guardava con un occhio chiuso, come quando suonava – chissà, come un ciclope della musica – la Torre dei suoi avi e immaginava la vita di suo padre Ernesto nelle grigie vie di Alatri”.

La città dei mitici ciclopi ha ora deciso di ricordare quel figlio illustre e un po’ vagabondo attraverso questa ammirevole opera di traduzione.

“L’autobiografia di Grappelli – scrive Tarcisio Tarquini, Presidente dell’Associazione Gottifredo, nella sua postfazione al libro – è una storia di viaggi, di concerti tenuti in ogni parte del mondo, di incontri, tutti rievocati con la misura dell’affetto e della nostalgia, in cui non trovano spazio e peso né giudizi brucianti né rivelazioni sconcertanti. Il tratto del garbo, della mitezza, della buona educazione ne sono la cifra più marcata che rivela un’attitudine della vita. È anche, però, il racconto di una solitudine di cui il violino diventa l’emblema, oltre che un permanente tentativo di riscatto. L’itinerante compagno di un ragazzo povero che, diventato adulto e famoso, cerca le sue radici per non perdersi, per comprendersi. E le rintraccia in una periferia della provincia italiana, dentro una torre che, forse per caso, porta il suo nome: spia della sua emigrazione e segno identitario, ridotto al grado zero, di un artistico vagabondaggio. Radici ben piantate in un giardino che adesso conserva – e sarà così per sempre – l’ultimo, resistente, sbriciolato sedimento materiale della sua anima”.

Stefania Del Monte

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