La situazione in Congo e le domande sulla morte dell’ambasciatore Attanasio

La situazione in Congo e le domande sulla morte dell'ambasciatore Attanasio
Una delle tante foto circolate sul web che ritraggono l'ambasciatore assieme alla popolazione locale (Fonte immagine Il Riformista)

Il barbaro assassinio dell’ambasciatore Luca Attanasio, del carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci e dell’autista Mustapha Milambo hanno riacceso i fari su un territorio caratterizzato da perpetua instabilità e forti conflitti. La Repubblica Democratica del Congo è uno stato precario, fiaccato da una serie di guerre che nel corso degli anni hanno lasciato evidenti strascichi sociali, culturali ed economici con migliaia di sfollati e gruppi terroristici che si contendono il territorio a suon di conflitti a bassa densità. In questo contesto ha trovato la morte uno dei fiori all’occhiello della diplomazia europea, un uomo che, a giudicare dal dolore della popolazione locale, aveva dato molto al Congo e ai congolesi.

Sessant’anni di instabilità, ingerenze esterne, gruppi armati e difficoltà politiche forniscono un quadro eloquente della situazione di un Paese che, fino all’attentato di qualche giorno fa, avremmo fatto fatica a trovare sulla mappa. Ora, però, urge fare chiarezza su queste dinamiche, soprattutto alla luce delle numerose domande che accompagnano la missione dell’ambasciatore e le incongruenze protocollari in seno alle Nazioni Unite.

Sessant’anni di instabilità

La RDC è, come quasi tutti gli stati africani, una ex colonia. In particolare, nacque come stato libero del Congo verso la fine dell’Ottocento, quando la Conferenza di Berlino divise il territorio del continente africano in aree di influenza. Al Belgio toccò l’area corrispondente al bacino del fiume Congo. Il governo coloniale belga di Leopoldo II, secondo gli storici, fu uno dei più brutali, schiavisti e sanguinosi della storia. Milioni di congolesi perirono soltanto per arricchire il regime belga, interessato alla raccolta della gomma.

Il controllo belga si radicò in varie forme. Fino al 1908 la colonia fu un possedimento personale del re Leopoldo II, dal 1908 al 1960 il dominio sulla colonia divenne di tipo tradizionale. Non un cambio di passo deciso, poiché le atrocità rimasero fino a quando un attivista, Patrice Lumumba vinse le prime elezioni libere della storia del Congo. Il suo governo durò una manciata di mesi, dato che poco dopo la sua elezione fu arrestato dai separatisti, sostenuti dal Belgio, che lo fucilarono l’anno seguente. L’instabilità politica segnò una serie di conflitti interni che si conclusero nel 1965, con la presa del potere da parte dell’ex Capo di Stato maggiore dell’esercito e consigliere fedele proprio dell’ex Primo ministro Lumumba: Mobutu Sese Seko.

Il colpo di stato fu orchestrato dal Belgio, il quale voleva mantenere il diritto di sfruttare le miniere del Paese, e dagli Stati Uniti, secondo cui un avvicinamento del governo locale all’Unione Sovietica era assolutamente da evitare. L’ex generale rinominò il suo Paese Zaire e usò il pugno di ferro contro ogni dissenso. Il dominio di Mobutu andò avanti fino alla Prima guerra del Congo, una serie di conflitti che interessarono l’est del Paese, sia per la sua ricchezza mineraria che per la sua posizione di confine con Ruanda, Burundi e Uganda. In particolare, la guerra risale alla metà degli anni ’90, ha origini esterne ed è legata a un altro conflitto, cioè al genocidio del Ruanda del 1994 dove morirono centinaia di migliaia di persone di etnia Tutsi.

A seguito del conflitto, circa due milioni di persone fuggirono in Zaire. Non si trattava delle vittime bensì dei carnefici. Il governo di etnia Hutu, autore del genocidio, e milioni di persone Hutu trovarono rifugio nello Zaire dopo che un ribelle Tutsi era riuscito a prendere il controllo del Ruanda. Si trattava di Paul Kagame, il quale divenne subito dopo Presidente del Paese.

Nel 1996 Kagame invase lo Zaire con il pretesto di dare la caccia agli Hutu ma alla fine si capì che il vero obiettivo erano le miniere dell’est e le relative risorse. L’anno seguente, Mobutu fu costretto alla fuga da una specie di coalizione formata dagli eserciti di Ruanda, Uganda, Angola, Burundi ed Eritrea. Un ribelle locale, Laurent Kabila, divenne presidente sotto la tutela del Ruanda.

Fu proprio Kabila a rinominare il Paese Repubblica Democratica del Congo e dopo poco tempo, cercò di rendersi autonomo dalla tutela del vicino Ruanda. Pochi mesi dopo, però, Kagame ordinò l’ennesima invasione della RDC, sostenendo una ribellione di un’etnia nella regione di Goma. Da qui ebbe inizio la Seconda guerra del Congo, la quale divenne un conflitto che coinvolse più Paesi: da un lato Ruanda, Uganda e Burundi e dall’altro Angola, Ciad, Sudan, Repubblica Centrafricana, Zimbawe, Namibia e Libia. Assieme agli eserciti regolari, combatterono decine di gruppi armati divisi dall’appartenenza etnica e con interessi diversi.

La guerra terminò nel 2003, quando tutte le parti in conflitto erano stremate. Il negoziato di pace fu favorito dalle Nazioni Unite, le quali stanziarono sul territorio circa 18mila uomini. Quella in RDC è la missione ONU più grande del mondo. Si dice che il conflitto appena concluso sia il più grande per numero di vittime dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, le perdite ammonterebbero a cinque milioni, in gran parte civili coinvolti in stupri e massacri etnici. Le prime elezioni regolari risalgono al 2006 e furono vinte da Joseph Kabila, figlio di Laurent, assassinato dalla sua guardia del corpo durante la guerra.

Nonostante l’apparente ritorno alla pace, le violenze nell’est del Paese non si sono mai fermate. Tra le ragioni principali ci sono sicuramente le ricchezze del sottosuolo, seguono poi le milizie armate e le divisioni etniche profondissime.

Le risorse del sottosuolo

Nella «una magnifica torta da spartire», come la chiamava Leopoldo II di Belgio, è concentrato circa il 60% del cobalto estratto a livello globale. Si tratta del minerale che alimenta le batterie ricaricabili agli ioni di litio da cui prendono vita gli smartphone, i computer, i tablet e le auto elettriche.

Lo sfruttamento del Congo ha pochi rivali per intensità e dimensione. Sin dai tempi coloniali, il controllo dei giacimenti di coltan, diamanti e oro nella parte orientale del Paese, è stato in mano europea e di potenze straniere. Le ricchezze sono perlopiù concentrate nella regione dell’ex Katanga, al confine con Angola e Zambia. Le guerre che si sono succedute nel Paese hanno impedito al Congo di svilupparsi liberamente, di dar luogo a una stabile crescita economica. L’endemica corruzione scatenata da questo immenso giro di affari e da istituzioni volontariamente organizzate in modo debole e approssimativo, sono un’altra delle cause che impediscono al Paese un deciso passo in avanti verso la crescita.

Come per altri stati del sud del mondo, dove sono presenti grandi giacimenti di risorse naturali, anche la Repubblica Democratica del Congo è ostaggio delle sue risorse. Il Congo rimane infatti uno dei Paesi più poveri al mondo, vittima di una storia coloniale e post-coloniale di violenze e soprusi e attualmente soggetto al più classico dei neocolonialismi, dove le potenze e le multinazionali si contendono il controllo dello sfruttamento e del mercato del cobalto.

Ma il Congo non ha solo risorse minerarie. I terreni sono fertili e adatti per le coltivazioni intensive su cui puntano i grandi Paesi come la Cina e possono essere utilizzati per far fronte al sovrappopolamento che rende le risorse degli stati più popolosi insufficienti. Si chiama land grabbing e consiste nell’acquisizione di terreni agricoli mediante affitto o acquisto da parte di imprese transnazionali e governi stranieri per assicurarsi la disponibilità di approvvigionamenti e riserve alimentari al fine di tutelare gli interessi nazionali. E non finisce qui. In Congo è presente anche una foresta pluviale, considerata il “secondo polmone più grande del pianeta“, che assorbe quantità enormi di anidride carbonica. Gli interessi settoriali esteri mettono in pericolo anche questo patrimonio verde.

L’instabilità politica e i conflitti etnici

Sullo sfondo di questo sfruttamento selvaggio ci sono gli scontri armati che si registrano soprattutto nella parte orientale del Paese. In queste province è forte la presenza di fazioni ribelli avverse al governo centrale. Nel Nord Kivu, cioè nella regione in cui è avvenuto l’agguato, sono frequenti le rappresaglie tra i Nande e gli Hutu. Si tratta di una regione pericolosissima, qualificata da ogni rapporto ONU come territorio “ad alto rischio” e la cui circolazione è sconsigliata.

I diversi gruppi ribelli si contendono il controllo delle risorse minerarie. Solo nel 2020 sono stati uccisi in questa vasta area almeno 2mila civili. Gli osservatori delle Nazioni Unite hanno registrato rappresaglie, mutilazioni, stupri e definiscono la crisi umanitaria in corso nel Paese come una delle peggiori a livello globale. Un’altra notizia che non può certamente essere considerata lieta è quella secondo cui gli scontri stanno rapidamente aumentando.

Il gruppo ribelle più sanguinario è sicuramente l’Allied Democratic Forces, fazione ribelle originaria dell’Uganda, fondata negli anni Novanta e che è molto attiva nella parte orientale del Congo. Secondo l’ONU, nel 2020 il gruppo ribelle ha ucciso almeno 900 civili, conducendo attacchi nei territori del Nord Kivu violando sistematicamente i diritti umani.

I ribelli che hanno assaltato il convoglio su cui si trovava l’ambasciatore Attanasio, secondo fonti della sicurezza ONU, appartengono alle Forze Democratiche per la liberazione del Ruanda. Tuttavia risulta difficile constatarlo con certezza dato che nella zona militano, oltre al FDLR, anche le milizie Nyatura e gli ex membri del gruppo M23. Secondo un recente studio sull’argomento, sono ben 122 i gruppi armati attivi nell’est della RDC e né la missione ONU Monusco né tantomeno il governo locale riescono a porre un freno alla loro attività, la quale produce chiara instabilità politica e sociale.

Il genocidio ruandese e le tensioni inter-etniche, alimentano le profonde divisioni delle zone di confine. Basti pensare che l’intervento francese, su mandato ONU, in Ruanda nel 1994 spostò il conflitto etnico nella vicina Repubblica Democratica del Congo, dove avevano trovato rifugio due milioni di Hutu. Inoltre, la Seconda Guerra del Congo cominciò proprio a causa dell’insorgenza di una ribellione Tutsi contro il presidente Kabila. La variabile etnica è molto forte in loco e incide, ovviamente, sull’instabilità politica della regione. Una spina nel fianco del governo centrale, una storia di violenze che non vuole cancellarsi nonostante la guerra sia terminata da diciotto anni.

Le domande sulla morte dell’ambasciatore Luca Attanasio

Nonostante l’ONU abbia comunicato, più o meno, lo svolgimento delle dinamiche legate all’assalto del convoglio dell’ambasciatore, nei pressi della città di Kanyamahoro, a pochi km della capitale regionale Goma, restano ancora molte zone d’ombra e molte domande su quanto accaduto.

Innanzitutto, perché le due auto (o tre secondo il WFP) non erano blindate? Perché non erano scortate da uomini armati? Per quale motivo l’ambasciatore, il carabiniere e l’autista non indossavano giubbotti antiproiettile? Poi, per quale motivo non erano stati attivati dei contatti radio tra le auto e le autorità locali? Circa la prima domanda la risposta è arrivata da fonti della Farnesina secondo cui Attanasio avrebbe ordinato delle auto blindate per la sua missione. A tale proposito, perché non aspettare l’arrivo di queste auto in Congo?

Eppure i protocolli ONU parlano chiaro: “chi opera nell’area di Goma, deve spostarsi con mezzi blindati e scorta armata”. Una circostanza che è stata confermata anche dai Caschi blu italiani. Perché non sono state rispettate queste regole in occasione della visita di un ambasciatore che ha aderito a un programma ONU?

Alcuni funzionari delle Nazioni Unite hanno parlato di “missione non ufficiale”, la quale era stata autorizzata dal governo congolese ma che non era stata comunicata alle autorità provinciali e ai servizi di sicurezza. Il governo della RDC ha smentito quanto dichiarato dai funzionari in un lungo comunicato redatto in lingua francese. Insomma, questo convoglio è transitato in una zona pericolosa per la sicurezza dei viaggianti senza che nessuno sapesse nulla. L’ONU accusa il governo, quest’ultimo smentisce. Le accuse, però, sono rivolte anche al WFP (Programma alimentare mondiale ONU) il quale aveva parlato di “strada sicura”. Una dichiarazione sconcertante, dato che ciò non corrisponde assolutamente alla verità.

A questo punto, chi sta mentendo? I ribelli, quando hanno assalito il convoglio, sapevano della presenza di un alto funzionario di uno stato straniero e componente di una missione delle Nazioni Unite?

Secondo fonti congolesi, confermate dall’ONU, i responsabili del massacro sarebbero le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda, ribelli Hutu attivi nel nord-est del Congo. Poco dopo arriva la smentita del gruppo stesso, il quale chiede alle autorità e alle Nazioni Unite stesse di fare luce sull’accaduto “invece di inventare accuse affrettate“. Un comunicato inusuale per una milizia ribelle. Tuttavia non è così errato credere che i miliziani non c’entrino nulla con ciò che è accaduto poiché secondo i giornalisti attivi nella zona, non sarebbe quella l’area in cui questi ribelli operano di solito. Ciò non esclude, al contempo, che gli stessi possano aver sfruttato questa eventualità per colpire.

I dubbi e le domande sulla vicenda, come si può notare, sono tanti. Addirittura le diverse fonti non concordano sul numero degli assalitori. C’è chi parla di 5-6 soldati, altri non sono così sicuri che il commando sia stato così esiguo. Circa la composizione del convoglio, si dice che fosse uso dell’ambasciatore viaggiare senza il rispetto dei protocolli, addirittura con autisti del luogo – una cosa vietata dai regolamenti – e senza un’adeguata scorta. Un rischio, un grosso rischio a quanto pare. Poi, sempre secondo i protocolli, quando il rischio è troppo alto e non ci sono mezzi adeguati le missioni si cancellano e si rimandano a tempi migliori.

Protocolli che fanno pensare alle parole della moglie dell’ambasciatore Attanasio, la quale con una frase ha gelato ogni ipotesi sulla vicenda: “Qualcuno che conosceva i suoi spostamenti ha parlato, lo ha venduto e lo ha tradito. Mentre io ho perso l’amore della mia vita”. Un’altra eventualità che potrebbe trovare risposta nella situazione in cui versa il Congo, Paese al centro di consistenti interessi economici e che a un bravo funzionario che si dedica anima e corpo al benessere della popolazione locale non potrebbero mai piacere.

Si giungerà mai alla verità? Probabilmente no, perché nessuno ha interesse affinché venga fuori. Il governo congolese ha già dato la sua versione ufficiale e non ha interesse a cambiarla, dato che ha incolpato un gruppo ribelle e spera che l’ONU, per ripicca, si concentri su di esso. Le stesse Nazioni Unite non ammetteranno mai la superficialità della propria organizzazione circa il proprio coordinamento sulla missione. E tutto resterà così, avvolto in una coltre di fumo formata da incompetenza, interessi egoistici e viltà.

Donatello D’Andrea