Cosa sta succedendo nel Partito Democratico

Cosa sta succedendo nel PD
Il segretario dimissionario Nicola Zingaretti (Fonte immagine Radio Popolare)

Le dimissioni di Nicola Zingaretti da segretario è soltanto l’ultimo dei tormenti del Partito Democratico. In un lungo messaggio pubblicato sui social, si legge che la volontà di lasciare deriva dai ben conosciuti problemi interni del partito, divenuti ormai insopportabili e inconcepibili, soprattutto in periodo di pandemia.

Il forfait, comunque, era nell’aria. Gli attacchi al segretario si sono moltiplicati da diverse settimane, soprattutto dopo la caduta del Conte bis e la nascita del governo Draghi. Da un lato c’è una parte consistente del partito che non vorrebbe proseguire l’alleanza con i grillini, dall’altra c’è chi rimprovera l’attuale amministrazione di essere troppo maschilista, dato che non è stata capace di presentare alcun nome femminile nella lista dei papabili ministri. Poi c’è un’altra corrente, apparentemente più defilata che di giorno rinnovava il suo appoggio a Zingaretti e di notte lavorava per spodestarlo: è la corrente degli amministratori locali. Insomma, più che un partito di sinistra il PD sembra la vecchia Democrazia Cristiana – buona parte dei dirigenti vengono da lì – con le sue correnti interne rette da uomini ambiziosi.

Cosa sta succedendo dentro il Partito Democratico? Quale corrente ha più possibilità di prendere il sopravvento? L’instabilità è dovuta anche a pressioni esterne?

Il partito delle correnti

Una delle questioni di maggiore dissenso nei confronti della segreteria era, come anticipato, il rapporto con il Movimento Cinque Stelle con cui il Partito Democratico ha governato e governa tuttora. Altro punto critico è stata l’ingombrante presenza dell’ex Presidente del Consiglio Giuseppe Conte all’interno delle dinamiche dell’alleanza. L’avvocato era arrivato, addirittura, a ipotizzare un’alleanza strutturale, più profonda rispetto alla coalizione che abbiamo conosciuto, così da inaugurare “un polo progressista” da presentare alle prossime elezioni. La sua ambizione ha acceso un campanello d’allarme nella mente di coloro che, mal digerendo l’alleanza di due anni fa, avrebbero tratto solo giovamento dalla caduta del governo. In particolare, per suggellare il patto, Zingaretti ha intenzione di allargare la giunta regionale ai grillini, a cui si dice dovrebbe assegnare due assessorati, e ha affidato la gestione della trattativa a un esponente della corrente di Dario Franceschini, uno dei più potenti dirigenti del partito.

La prospettiva di questo patto strutturale con i grillini spaventa, tra gli altri, proprio gli ex renziani di Base Riformista. La scorsa settimana la corrente si è riunita per decidere la posizione da tenere alla prossima Assemblea nazionale. Secondo i renziani l’alleanza con i pentastellati non ha fatto altro che indebolire il partito, subordinando ogni presa di posizione alla volontà di Conte, sempre più vicino ad assumere definitivamente la guida del Movimento. Secondo uno dei tanti sondaggi che si leggono sul web, nel caso in cui Conte assumesse la leadership dei Cinque Stelle questi salirebbero al 22%, mentre il PD scenderebbe al 14,2%. Sulla base di queste proiezioni, Base Riformista ha scelto di attaccare il segretario.

Assieme a questa corrente, ce ne sono altre che sostengono come il partito debba puntare sul tema della ricerca di un’identità politica più che di un’alleanza. Non si capisce come una cosa possa c’entrare con l’altra, a dire il vero. Il Partito Democratico non ha mai avuto un’identità ben definita, una cosa grave per una formazione politica che si fa portavoce di un’eredità come quella del Partito Comunista, non è stata certo l’alleanza con i grillini a impedire ai democratici di esprimersi e di rendersi credibili agli occhi degli elettori. D’altro canto, nemmeno l’obiezione su Conte ha senso: il problema della leadership è una vecchia nemesi di un partito che ha puntato tutto sulla gestione collegiale, ritrovandosi bloccato dai capricci delle correnti.

Le correnti hanno chiesto al segretario di tenere un Congresso in cui possa essere messa in discussione anche la sua leadership, poiché secondo i detrattori il segretario avrebbe disatteso lo statuto prendendo decisioni personali e andando contro la gestione collegiale degli affari di partito.

Un’altra grana per la segreteria del Presidente della Regione Lazio è arrivata con le nomine dei ministri del governo Draghi. La mancata presenza di nomi femminili nella lista presentata da Zingaretti ha sollevato numerose polemiche relative al ruolo delle donne all’interno del partito, e più in generale all’interno della politica italiana. Per ovviare a questa vergognosa evidenza, il PD ha proposto molti nomi femminili per le nomine dei sottosegretari. Il problema, però, resta, è serio e ha radici antiche non direttamente imputabili all’attuale gestione.

Per rispetto della parità di genere, il segretario deve eleggere due vice: un uomo e una donna. Quando fu eletto Zingaretti rispettò questo punto dello statuto nominando Andrea Orlando, con funzioni di vicario, e Paola De Micheli. Quando la seconda fu eletta Ministro delle Infrastrutture, lasciò la carica partitica per assumere quella governativa. In molti, oggi, imputano ad Andrea Orlando di non aver fatto lo stesso, essendo stato nominato da Draghi come Ministro del Lavoro. Le correnti vorrebbero accaparrarsi un posto in segreteria, mettendo una donna vicina ai propri desiderata, altri vorrebbero soltanto le dimissioni di Orlando per sostituirlo con un non zingarettiano. L’attuale ministro, infatti, è vicino alla linea “grillina” assunta dal segretario ed è critico verso Base Riformista.

Alcuni problemi provengono anche dalle amministrazioni locali, dove si sta accendendo la corsa alla leadership del partito. Stefano Bonaccini, con una dichiarazione shock, definì ragionevole la posizione di Matteo Salvini, leader della Lega, sulla riapertura di sera di pub e ristoranti. Le sue parole furono considerate come un pretesto in una contesa che riguarda la guida del Partito Democratico. Il Presidente dell’Emilia Romagna, infatti, viene salutato come possibile successore di Nicola Zingaretti. Lui, si dice, sarebbe molto vicino a delle posizioni considerate “renziane”.

Altre critiche fanno riferimento all’assetto del nuovo governo che vedono il PD indebolito, con il centrodestra asserragliato in posizioni strategiche e sicuramente più funzionali rispetto ai ministeri e ai sottosegretari ottenuti.

Queste numerose criticità hanno portato Nicola Zingaretti a rassegnare le dimissioni, lasciando il partito senza una linea e senza una guida. Le voci circolano, le critiche anche. Alcuni sostengono che il forfait non sia stato altro che una mossa strategica per ritornare sul sollecito dell’Assemblea, altri invece ritengono che avrebbe dovuto restare e rafforzare la sua posizione interna imprimendo una svolta all’assetto del partito, marginalizzando le divisioni e rendendole inoffensive. Sicuramente i problemi interni sono tanti, le correnti hanno assunto troppo potere per essere combattute da un leader che non ha nemmeno il controllo dei suoi parlamentari (che sono stati portati in Parlamento da Renzi).

Era il caso di lasciare?

Le dimissioni di Nicola Zingaretti non arrivano in seguito a qualche divergenza politica con una parte del partito riguardante un argomento di rilevanza nazionale, bensì dopo una serie di polemiche, alcune artificiali altre meno, che normalmente non avrebbero portato a un gesto così plateale come quello di gettare la spugna. Di costruttivo all’interno del messaggio del segretario c’è soltanto la dura realtà di un partito disarticolato e di una lotta interna per le poltrone. Si tratta di due dinamiche che, inserite in un contesto diverso dal Partito Democratico, descriverebbero alla perfezione qualsiasi dinamica politica. Un po’ poco per dimettersi, secondo alcuni. C’è dell’altro?

In soldoni Zingaretti ha deciso di dimettersi perché il dibattito interno del partito non era più di suo gradimento e invece di cambiarlo è andato via sbattendo la porta. Il suo forfait arriva in un momento di grande tensione della formazione politica, esplosa dopo la fine del precedente esecutivo e la deludente spartizione dei posti disponibili all’interno del nuovo. Il resto, come le gaffes, fanno solo da contorno.

Ecco perché le dimissioni hanno lasciato molti sospetti. Alcuni non ci hanno creduto e affermano che Zingaretti abbia deciso di dimettersi solo per guadagnare legittimità agli occhi dell’Assemblea e farsi riconfermare. Altri, invece, parlano di pressioni esterne troppo forti come quelle di Matteo Renzi, il quale avendo lasciato amministratori, dirigenti e parlamentari all’interno del Partito Democratico, spinge per un suo ritorno dopo l’esperienza fallimentare di Italia Viva, che non si schioda dal 2%. L’ex segretario avrebbe deciso di tirare giù l’attuale primo dirigente per favorire il suo rientro e rompere l’alleanza con i grillini. I classici “due piccioni con una fava”.

Si tratta di due ipotesi verosimili: Zingaretti non ha mai avuto una posizione forte nel partito, nonostante abbia provato a circondarsi di fedelissimi, soprattutto per problemi dovuti alla scarsa leadership. Lui resta pur sempre un buon amministratore, e la gestione del Lazio lo dimostra, ma il Partito Democratico richiede una persona di polso, forse troppo rispetto agli standard degli altri partiti italiani, per riuscire a controllare tutte le correnti. Ci vuole davvero poco per cadere. Renzi aveva ovviato a questo problema espellendo tutti, facendo cadere qualsiasi testa si ponesse in disaccordo con lui (Bersani, Fassina…). Il partito si è così indebolito, diventando una macchina al servizio del leader e non più un contenitore di idee, visioni e prospettive diverse come un qualsivoglia partito di sinistra.

Questo è stato ciò che ha ereditato Nicola Zingaretti, al quale sono state addossate troppe responsabilità e aspettative, come una ricostruzione da attuare in tempi brevi, il recupero di una identità mai esistita e la delineazione di una linea politica. In due anni è impossibile ovviare a tutto questo. Nonostante tutto, alle Elezioni Europee del 2019, un mese dopo la sua elezione, il PD è tornato sopra il 20% e le ultime regionali hanno regalato risultati inaspettati. Certamente non tutti i meriti sono i suoi, dato che nel frattempo i grillini si sono sciolti come neve al sole e hanno perso 2/3 dei voti del 2018.

La linea scelta, cioè quella di un’alleanza strutturale con i grillini, ha sollevato parecchie critiche nonostante fosse, in tempi di magra, l’unica alternativa possibile, condivisa anche da esponenti con maggiore esperienza di vertice rispetto al segretario. Inoltre, anche se l’alleanza non fosse stata promossa, il Partito Democratico di certo non sarebbe guarito dai decennali problemi di identità. Una critica sterile. Recuperare la ragione sociale sinistra progressista che combatte per i diritti di ognuno, non c’entra niente con un’alleanza nata in funzione strategica e che potrebbe diventare qualcosa di più. Sulla figura di Conte, pesano la gestione della pandemia, il suo stile istituzionale e soprattutto l’assenza di leadership nel Partito Democratico.

La confusione interna al partito è tanta, forse troppa per un “amministratore” come Zingaretti, anche se, a questo punto, il segretario avrebbe dovuto difendere la linea perseguita in modo più netto e coraggioso, invece di cedere alle prime bordate. Interrompere così un lavoro portato avanti per due anni riporterebbe il partito al punto di partenza, cioè alle macerie lasciate da Matteo Renzi, e non farebbe altro che alimentare la confusione interna.

Resta il fatto che quanto è accaduto in queste settimane sta contribuendo ad affossare ulteriormente quella credibilità che il partito si era ricostruito nel periodo del Conte bis. Forse le dimissioni sono arrivate in un momento critico per il partito e il segretario avrebbe dovuto pensarci bene prima di lasciare il suo lavoro a metà. Inoltre, da un leader ci si aspetta che sappia resistere alle sollecitazioni interne. Se le dimissioni fossero, al contrario, un pretesto per rafforzare la sua posizione – dato che su Twitter ha cominciato a condividere tweet di chi gli dice di ripensarci – non è detto che gli elettori capirebbero e non è sicuro che la mossa produca i risultati sperati, cioè compattare il partito attorno a lui. Il PD è una formazione imprevedibile, diventata una scheggia impazzita pronta a prendere la direzione che questa o quella corrente vuole imprimerle.

Donatello D’Andrea

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