Perché l’Unione Europea non funziona più?

L'Unione Europea non funziona più?
Alcide De Gasperi fu uno dei più grandi ispiratori, e sostenitori, della costruzione federale europea (Fonte Immagine StartupItalia)

Da diversi anni a questa parte, circola la tesi secondo cui l’Unione Europea si stia disintegrando gradualmente a causa di persistenti problemi strutturali interni, i quali si accompagnano a crisi ormai cicliche come quelle migratoria ed economica.

Si tratta di una disintegrazione lenta, impercettibile ma presente. L’ultima conferma arriva dalla questione dei vaccini, dove i ritardi della Commissione hanno giustificato l’agire per conto proprio di alcuni stati. Si tratta comunque di un granello di sabbia nel deserto, dato che di querelle aperte ce ne sono a bizzeffe e ognuna ha il suo peso sulla graduale disgregazione dell’UE.

Le falle sistemiche ci dicono, comunque, che l’Unione non è altro che un’unione di egoismi e non di scopi. Un’unione di interessi nazionali e non continentali. Non c’è alcuna strategia di sopravvivenza comune, se non l’insieme di interessi, alcune volte conflittuali altre volte no, in cui è preponderante l’asse franco-tedesco (più tedesco che franco).

L’assenza di una visione comune, di una strategia nell’interesse di tutti e non negli interessi nazionali, ha dimostrato, come se ce ne fosse bisogno, di essere fatalmente fallimentare. Lo si è capito troppo tardi, però, cioè in quel momento in cui la leadership tedesca di Angela Merkel ha vacillato per la prima volta in 15 anni. A quel punto, qualcuno si è accorto che qualcosa non funzionava più.

Alla base della debolezza europea c’è un equivoco. L’Europa non è mai stata un’Unione ma un insieme di stati che si univano per gestire al meglio un continente, in cui ognuno aveva l’interesse a far prevalere la propria agenda. A dimostrazione dello scarso senso unitario ci sono le cosiddette alleanze interne: i Paesi di Visegrad ne sono un esempio. Si tratta di un nucleo di interessi nazionali comuni in contrapposizione a quelli di Bruxelles e di Berlino. Ma c’è anche la concezione di un’Europa a due velocità, espressione usata spesso per distinguere gli stati del nord da quelli del Mediterraneo.

Al contrario, non si è mai sentita l’esigenza di dar seguito a un progetto unitario, sulla scia del blocco di Visegrad, formato da Spagna, Italia e Grecia. Anzi, la debolezza greca e l’egoismo di Madrid hanno lasciato l’Italia da sola di fronte al blocco franco-tedesco, con gli ispanici che stanno cercando di prendere il posto del Belpaese come terza forza continentale.

Prima di chiedersi se valga ancora la pena continuare a contribuire a un’Unione che non funziona più, mettendo sul tavolo pro e contro di un continente unito, è necessario sottolineare alcuni aspetti chiave utili a comprendere il motivo per cui settant’anni fa qualcuno pose le basi di una Comunità Europea unita e non divisa.

Una storia travagliata

La necessità di un continente unito, non è un’idea del secolo scorso. Il dibattito storico in merito ha almeno un paio di secoli e trova le sue radici nei salotti francesi prima e nel mazzinianesimo dopo. A metà dell’Ottocento i movimenti rivoluzionari, anche italiani, parlavano oltre che di un’Italia unita anche di un comune risveglio europeo. Dopo la Seconda Guerra Mondiale e gli orrori del nazifascismo si sentì la necessità, anche su spinta americana, di costruire un’Occidente unito, per non ripetere gli errori che portarono a ben due guerre nel corso di trent’anni.

Il primo passo fu economico. La prima comunità europea degli anni ’50, la CECA, era finalizzata a rimettere in piedi le grandi economie europee, attraverso la condivisione del carbone e dall’acciaio, i due elementi più importanti per una ricostruzione industriale ma anche i due materiali che avevano definito la potenza bellica tedesca. Metterli in comune con la CECA, era un gesto dalla grande portata simbolica.

Perché subito dopo la CECA, non fu messa sul tavolo una proposta politica? Non è proprio così, dato che le prime proposte politiche di stampo europeo risalgono alla fine degli anni ’40. Dapprima gli europeisti investirono sul Consiglio d’Europa, senza successo a causa delle reticenze inglesi e irlandesi, e poi sulla CED, la Comunità Europea di Difesa.

La CED nacque in conseguenza all’idea anglo-americana di riarmare i tedeschi a causa dello scoppio della guerra di Corea nel giugno del 1950. Parigi era contraria all’ipotesi lanciata da Washington ma sapeva che per correre ai ripari avrebbe dovuto proporre qualcosa. Nacque così la CED che, grazie soprattutto al lavoro di Alcide De Gasperi, si trasformò in qualcosa di più. L’art. 38 del Trattato dettava la creazione di una federazione democratica, provvista di istituzioni, tra cui un Parlamento eletto direttamente dai cittadini e dotato di una serie di funzioni che andavano ben oltre la condivisione dell’esercito, del carbone e dell’acciaio. Il progetto cadde proprio nello stesso Paese proponente, a causa delle reticenze golliste, socialiste e radicali che portarono all’affossamento della ratifica in Parlamento. Sul banco degli imputati un’eccessiva cessione di sovranità e, soprattutto, il mancato coinvolgimento dell’opinione pubblica che non riusciva ad andare oltre il terrore dei tedeschi.

Dei tre pilastri su cui si sarebbe dovuta basare la nuova Europa, due furono esclusi subito da ogni discussione: difesa e politica. La condivisione economica, considerata meno invasiva e più impellente, fu favorita per i primi vent’anni della storia post-bellica. Con gli allargamenti degli anni ’70 qualcuno rispolverò le vecchie esigenze di rappresentanza, al centro già delle proposte degli anni ’50 ma senza spingersi oltre verso la federazione, come auspicato dal Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli, il quale, infatti, ammise negli anni ’80 anche di non essere riuscito a plasmare l’Unione che avrebbe voluto.

Soltanto negli anni ‘7o fu rilanciato il progetto politico di un’Unione unita e democratica, in grado di eleggere i propri rappresentanti. Il passo decisivo, avvenne anche a se a seguito del caos monetario provocato dalla fine degli accordi di Bretton Woods nel 1971 (infatti poco dopo nacque lo SME).

La moneta unica non fu altro che una conseguenza di un processo lungo, tortuoso e senza apparenti vie d’uscita. L’euro non è altro che un disperato tentativo – in parte fallito – di unire i popoli europei facendo leva sull’unico pilastro realmente condiviso dai Paesi, cioè l’economia. Fu una decisione politica, anche se non venne percepita come tale.

Un progetto geopolitico

Prima di essere un progetto economico, quello europeo è innanzitutto un costrutto geopolitico. La Seconda guerra mondiale aveva lasciato un continente ridotto a un cumulo di macerie, troppo debole per resistere alle influenze dei due blocchi che il conflitto aveva creato. Da un lato c’erano gli Stati Uniti, che alla fine avranno la meglio, e dall’altro l’Unione Sovietica, o meglio, il comunismo che l’élite occidentale avversava con tanto fervore.

Gli americani incoraggiarono la creazione di una Comunità europea unita dal sentire comune di arginare l’avanzata del comunismo. Infatti, alla costruzione continentale non parteciparono i partiti comunisti occidentali, accusati di rispondere a Mosca e non al proprio elettorato. Nel fallito progetto della CED, per fare un esempio, Pierre-Henri Teitgen, avvocato ed esponente di spicco del Movimento Repubblicano Popolare francese, propose un sistema elettorale a scrutinio di lista con apparentamenti facoltativi che tenesse fuori i comunisti. 

La costruzione europea dell’epoca rispondeva alle vicissitudini della Guerra fredda. L’Occidente sotto la protezione americana si sentiva sicuro, abbastanza libero di muoversi senza grandi conseguenze. Mettere in comune la propria sovranità con altre potenze, con le quali fino a poco tempo prima si era in conflitto, se da un lato dimostrava quanto la lungimiranza della vecchia classe dirigente fosse lodevole, dall’altro veniva guardata con sospetto. I vani tentativi di compiere quel passo in più per affrancarsi dall’influenza americana non ebbero seguito non solo a causa delle reticenze di taluni soggetti statali ma anche per degli intoppi imprevedibili. Un esempio, in questo senso, fu la morte di Stalin nel 1953 e la successiva “distensione” tra gli americani e i sovietici. Il pericolo comunista sembrava scongiurato e, di conseguenza, la CED – l’esercito comune – non si rendeva più necessario. Anche i veti degli inglesi erano carichi di conseguenze: Londra voleva restare fuori dal progetto ma, al contempo, faceva di tutto affinché questo si arenasse.

La struttura politica che giunse agli anni ’90, dunque, era molto debole. Le istituzioni nate a ridosso della guerra erano costrutti tecnocratici incapaci di fare politica e di rimediare, soprattutto, all’assenza degli americani i quali, dopo la fine dell’Unione Sovietica mutarono atteggiamenti nei confronti della “propria creatura” (un po’ come successe con il Giappone).

La narrazione che vuole soltanto Putin come principale oppositore dell’Unione Europea convince soltanto chi ha poca dimestichezza con la politica estera. Donald Trump ha avuto lo stesso disegno, con il suo sostegno alla Brexit e ai governi meno filo-europei, e non si può escludere che un’Europa più debole e asservita faccia gli interessi anche dei presidenti democratici e non solo repubblicani. Non solo Donald Trump, insomma, il quale ha esplicitamente ammesso di odiare i costrutti sovranazionali e di voler trattare con ogni singolo stato così da conservare una posizione di forza, anche Biden ha bisogno più di un’Europa asservita che di un’Europa competitor.

A contribuire alla confusione c’è anche l’assenza di una politica estera comune. Sul fronte internazionale le decisioni di spessore prese dalle istituzioni continentali sono davvero poche. Il più grande successo degli ultimi anni è stato l’accordo sul nucleare, siglato tra USA e Iran, con la regia dell’Unione Europea. L’accordo è naufragato poco tempo fa a causa della decisione dell’ex Presidente Trump di uscirne. La debolezza europea in ambito internazionale deriva anche dall’egoismo collettivo delle varie nazioni, più interessate a perseguire il proprio interesse che quello collettivo. Ma si tratta di un vantaggio effimero, a tratti miope, dato che la potenza contrattuale di una singola entità statuale non sarà mai la stessa di un costrutto sovranazionale unito.

E poi ci sono i cinesi, i quali stanno cercando di penetrare in Europa da diverso tempo. La Nuova Via della Seta è un immenso progetto geopolitico che non coinvolge soltanto i singoli stati ma anche le singole infrastrutture. Ed è una differenza di non poco conto. L’acquisto e il finanziamento dei porti, delle ferrovie e degli aeroporti – con annesse opere strategiche – è coerente con il disegno di Pechino di prendere il posto – per ora soltanto a livello economico – della potenza globale dominante in uno dei mercati più ricchi del pianeta.

In un contesto del genere, è molto più semplice trattare con le singole entità statuali o con un costrutto unito? Questa è la domanda che dovrebbe porsi l’Unione Europea. Anche in questo caso, però, la risposta non può che essere politica.

Superare l’Unione Europea?

Ciò che manca, in sostanza, all’Unione Europea è proprio la politica. Questo non significa che la soluzione sia, come molti ingenuamente credono, la dissoluzione del costrutto continentale. Una visione di questo tipo manca completamente di profondità strategica e di cognizione di causa, senza considerare il periodo storico che il globo sta vivendo.

Con una nuova guerra fredda all’orizzonte, quella tra Cina e Stati Uniti, e una globalizzazione che, seppur in lenta ritirata, pone al centro delle trattative un peso politico che deriva dal potenziale commerciale e finanziario, i piccoli stati nazionali europei finirebbero schiacciati dalla competizione globale, soprattutto se si tratta di quelli più indebitati. E questo soltanto dal punto di vista economico.

Sul fronte politico, l’avanzata cinese, i cui denari restano tuttora irresistibili, e il suo viscerale interesse per il mercato unico europeo, rendono irrinunciabile una politica comune di intesa e di difesa dallo strapotere economico di Pechino.

Per anni Berlino, con Parigi al suo seguito, ha imposto il proprio ruolo di leadership nel continente, coordinando nei corridoi la direzione delle politiche europee. Il momento pandemico sembra propizio per ripensare questa idea d’Europa basata sulla primazia di due sole teste, rivelatasi un volano per le ambizioni federali e sovranazionali di chi aveva creduto in un progetto utile a tutti gli stati.

L’idea di Europa, secondo molti, ha senso solo se concerne la costruzione di un’Unione federale e solidale, in grado di superare le crisi che investono il continente, grazie a misure redistributive tra gli stati membri. E per imboccare questa strada c’è bisogno della politica, non dell’economia. Ad oggi, però, a causa soprattutto dei lasciti del passato, è diventato davvero difficile parlare di politica europea.

L’Unione Europea costruita a Maastricht si basa su una burocrazia depoliticizzata e, di conseguenza, soffre di una crisi di legittimazione che soltanto la politica può risolvere. Bruxelles è diventato quel Leviatano burocratico che la classe dirigente degli anni ’50 escluse con fermezza da ogni discussione di merito, insistendo, al contrario, sul massimo coinvolgimento democratico dei cittadini.

Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: l’Unione Europea è un costrutto senza identità, troppo lontano dalle esigenze nazional-popolari e in cui la politica economica prevale sulla politica in senso stretto. Sicuramente su una concezione simile pesano anche gli errori del passato, ma se all’epoca questi ultimi venivano mitigati dalla spiccata vocazione europeista della classe dirigente, oggi, al contrario, ci si trova di fronte a partiti che difettano del coraggio di pensare in grande.

L’identità comune si costruisce soltanto coinvolgendo le rispettive opinioni pubbliche nazionali, allontanandosi dalla fallimentare tecnocrazia odierna in favore di una nostra patria Europa, cioè di un’Unione di popoli che si basi principalmente sulla politica. L’ultimo tentativo di coinvolgere l’opinione pubblica con le petizioni non è sufficiente e rappresenta soltanto un contentino.

Ripensare l’Europa, dunque, passa soprattutto attraverso l’integrazione politica. E affinché questo sia possibile, c’è bisogno di partiti in grado di fare politica per l’Europa (e non sull’Europa).

Donatello D’Andrea

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