“Così il Mossad trafugò l’archivio nucleare iraniano”

Centrifughe per l'arrichimento dell'uranio nella centrale nucleare di Natans.
Centrifughe nella centrale nucleare di Natans. (ANSA/EPA/AEOI)

TEL AVIV.  – “L’operazione iniziò alle 22, ora di Tel Aviv. A Teheran il Mossad aveva una squadra di 20 agenti. Il loro compito era prelevare l’intero archivio nucleare dell’Iran. Cinquantamila documenti, assieme con 163 cd.

Disponevano di sette ore, incluse le due necessarie per la fuga in una località sicura. Non un minuto in più perché poi a Teheran, attorno ai due capannoni dove si trovava l’archivio, sarebbe iniziata la consueta attività del mattino”.

Nella prima intervista da quando questo mese ha lasciato l’incarico, l’ex capo del Mossad Yossi Cohen si è mostrato molto accondiscendente con la giornalista della televisione Canale 12. Anche perché, oltre che ai telespettatori del suo rinomato programma di inchieste “Uvdà”, sapeva che le sue parole sarebbero arrivate anche ai dirigenti di Teheran.  “Noi diciamo loro: non vi consentiremo di dotarvi di armi atomiche. Che cosa non vi è chiaro?”.

Nell’aprile 2018 il premier Benyamin Netanyahu avrebbe stupito il mondo organizzando al ministero della Difesa di Tel Aviv una conferenza in cui, con gesto teatrale, presentò gli scaffali sui quali erano esposti faldoni portadocumenti dai colori sgargianti. Contenevano, disse, le prove che l’Iran puntava a dotarsi di armi atomiche. Era il momento conclusivo, ha raccontato Cohen, di un’operazione iniziata due anni prima, quando il Mossad ebbe sentore che alla periferia di Teheran, in capannoni di aspetto modesto, venivano raccolti documenti segreti.

“In un Paese straniero – ha rivelato Cohen – costruimmo allora due capannoni identici, dove i nostri agenti cominciarono ad addestrarsi”. “Quello che successe dopo si vede talvolta in film di azione, come Ocean 11”, ha proseguito l’ex capo dei servizi israeliani.

“C’erano 32 grandi casseforti da scassinare. Con i lanciafiamme per aprire una fessura in ciascuna di essa occorrevano diversi minuti. Ogni minuto era critico”. Era la notte del 31 gennaio 2018 quando Cohen, dalla sede del Mossad alle porte di Tel Aviv, diede l’ordine di entrare in azione.

I sistemi di allarme furono neutralizzati, le porte di ingresso smontate. Poi, mentre gli agenti procedevano nella forzatura delle casseforti, i primi documenti furono inoltrati online a Tel Aviv per via digitale. “Erano in farsi, ma capimmo subito che erano quelli che cercavamo. Fu – ricorda Cohen – un’emozione fortissima”.

Per la fuga, secondo la ricostruzione della tv, furono utilizzati diversi automezzi: identici fra di loro, tutti con la stessa targa. Doveva essere un rompicapo per i servizi iraniani. Cohen non ha smentito: “Utilizzammo effettivamente una técnica di inganno”, si è limitato a dire. Nessuno degli agenti era di nazionalità israeliana. Che fine hanno fatto?, ha chiesto la giornalista. “Stanno bene, sono tutti vivi. Abbiamo dovuto esfiltrare alcuni di loro”. Ed il suo messaggio all’Iran? “Che sappiamo infiltrarci, che li osserviamo e che per loro l’era dei nascondigli e delle menzogne è terminata”.

(di Aldo Baquis/ANSA).