Draghi l’atlantista

Draghi l'atlantista
Il Presidente del Consiglio italiano Mario Draghi e Il Presidente USA Joe Biden durante un incontro bilaterale al G7 in Cornovaglia (Fonte immagine Palazzo Chigi)

Da diverso tempo ormai, il rapporto con la Cina è uno dei dossier con cui quotidianamente i governi occidentali devono confrontarsi. Seppur con posizioni diverse a seconda dei partiti di governo, i Paesi occidentali hanno individuato nella Cina un avversario con cui cooperare senza farsi sopraffare, intrattenendo delle relazioni che oscillano tra la competizione e la collaborazione. Esiste, insomma, una sorta di apprensione comune nei confronti degli obiettivi che Pechino ha deciso di prefissarsi, considerando che quello ultimo sarebbe presentare il proprio modello politico ed economico efficace ed efficiente al mondo, per sostituire un modello occidentale destinato a decadere.

Mentre la maggior parte degli stati mantiene un atteggiamento ambiguo nei confronti della Cina, l’Italia ha più volte manifestato un’esplicita apertura nei confronti del dragone che ha profondamente preoccupato gli alleati europei e gli Stati Uniti. Sotto il primo esecutivo guidato da Giuseppe Conte, il Belpaese aveva assunto una posizione di vicinanza a Pechino che si era esplicitata nell’adesione alla Nuova Via della Seta per tramite della firma di un memorandum d’intesa. L’Italia fu il primo e unico Paese del G7 a dare il proprio via libera all’iniziativa. Il memorandum era un documento di valore simbolico che segnalava l’adesione ufficiosa a un progetto di espansione dell’influenza politica ed economica cinese nel mondo.

La posizione filo-cinese del governo ha subito un’ampia revisione con l’avvicendarsi di Mario Draghi a Palazzo Chigi. Negli ultimi mesi l’ex banchiere ha compiuto un’evidente virata verso Washington e Bruxelles, riavvicinandosi agli alleati tradizionali su numerosi dossier di politica estera, compresa la Cina. D’altronde è stato lo stesso Draghi a definire il suo esecutivo «convintamente atlantista ed europeista». E in alcune situazioni lo ha ampiamente dimostrato.

L’avvicinamento alla Cina dei governi Conte

Con l’avvento del primo governo Conte, sostenuto dalla Lega e dal Movimento Cinque Stelle, la politica estera italiana subisce, almeno ufficialmente, una prima vera virata verso posizioni meno tradizionali e, di conseguenza, meno propendenti alle alleanze tradizionali dell’Italia. I due partiti al governo, infatti, già ben prima di affacciarsi a Palazzo Chigi avevano espresso, nei confronti della cosa estera, delle posizioni non convenzionali come, ad esempio, la vicinanza alla Russia e alla Cina, cioè due Paesi fuori dal perimetro dell’Alleanza Atlantica. Infatti, il leader della Lega, nonché ex Ministro dell’Interno, Matteo Salvini durante l’esperienza giallo-verde aveva mostrato segnali distensivi e di apertura nei confronti del Presidente russo Vladimir Putin, inviso ad americani ed europei, mentre Beppe Grillo, garante e mente del Movimento, si era contestualmente mostrato “aperturista” verso la realtà cinese, vista come una grande opportunità economica.

La manifestazioni di tali riscontri positivi nei confronti di queste due realtà richiedeva la presenza, nei palazzi del potere, di persone in grado di entrarvi in contatto. L’apertura al dragone, ad esempio, si concretizzò con la nomina di Michele Geraci, esperto di Cina e professore di Finanza in diverse università cinesi, a sottosegretario dello Sviluppo economico con delega al commercio internazionale. Il professore si circondò di altri esperti della cosa cinese con l’obiettivo di concentrarsi sullo sviluppo delle relazioni economiche con la sola Cina.

Sulla base di simili elementi è possibile chiarire quali erano le intenzioni e gli obiettivi perseguiti dal primo esecutivo a guida Conte: consegnare all’Italia un ruolo di primo piano nella mediazione tra le posizioni cinesi ed occidentali, funzionale all’ingresso all’interno del mercato di Pechino con il fine di sfruttarne le potenzialità economiche. Si tratta di un proposito ambizioso, non c’è dubbio, ma profondamente irrealistico e che denota una scarsa conoscenza della politica economica cinese perseguita nel corso di questi anni. Infatti, l’intento ultimo di Pechino non è mai stato quello di favorire l’ingresso delle aziende occidentali nella propria economia, casomai il contrario. La politica perseguita dal dragone, infatti, mira a una integrazione economica unilaterale, relativa alla penetrazione delle partecipate cinesi all’interno delle rodate ed incontrollate economie occidentali. In effetti, sulla base di questi presupposti potrebbe spiegarsi il fallimento del piano del governo Conte, il quale si è tradotto, semplicemente, in diversi atti di ossequio unilaterale dell’Italia nei confronti della Cina, con la bilancia commerciale che si è spostata ulteriormente – e pericolosamente – a favore di Pechino.

L’apice di questo rapporto molto ambiguo con Pechino fu raggiunto con la firma del memorandum d’intesa sulla Nuova Via della Seta, un progetto da diverse migliaia di miliardi di dollari, annunciato da Xi Jinping nel 2013 in uno dei suoi discorsi più celebri, che prevede investimenti infrastrutturali di un certo rilievo aventi l’obiettivo di rafforzare il legame economico della Cina con i tre continenti interessati (Africa, Asia ed Europa). Il piano ha, ovviamente, anche implicazioni politiche. E sono queste ultime a preoccupare gli Stati Uniti e il resto dell’Europa occidentale.

A dire il vero, l’entusiasmo italiano nei confronti della Nuova Via della Seta cinese nasce ben prima del governo Conte. Il primo leader occidentale a presenziare al Belt and Road Forum fu Paolo Gentiloni, senza considerare il legame particolare che intercorreva tra la Cina e i vari leader di centrosinistra, quali Massimo D’Alema e Romano Prodi. Il problema legato alla prima esperienza dell’avvocato pugliese riguarda, però, l’assenza di una distinzione tra le voci “affari” e “politica” (tenuta invece dai governanti precedenti). Per comprenderlo basta osservare il viaggio di Xi Jinping a Roma, dove, assieme a Di Maio ha firmato un memorandum dal valore molto politico e per nulla economico.

Anche sul fronte russo, a dire il vero, le cose non sono andate come sperato. L’Italia di Conte, Salvini e Di Maio, proprio come con la Cina, avrebbero voluto porsi come interlocutori privilegiati tra l’Occidente e l’Oriente, tra Putin e gli alleati. Anche in questo caso l’avvicinamento si è tradotto più in un atto ostile nei confronti degli Stati Uniti e dell’Europa che in un tentativo di dialogo. Anzi, molti elementi confermano il rapido deteriorarsi dei rapporti tra i contendenti. Inoltre, il recente scandalo della spia filo-russa conferma che l’atteggiamento circospetto dei russi nei confronti degli italiani non è mutato, nonostante le “buone intenzioni” del governo italiano.

Il mutamento repentino della politica estera italiana ha destato la preoccupazione delle cancellerie europee, le quali hanno cominciato a considerare Roma come “l’anello debole” della catena nello scontro di potere con Cina e Russia. Infatti, seppur i cinesi rappresentino un partner economico importante – e sicuramente più ben visto rispetto a Mosca – la rivalità strategica è forte e impedisce un approfondimento politico delle relazioni. La firma del memorandum sulla Nuova Via della Seta, trasforma la penetrazione economica cinese in influenza politica.

Nel periodo in questione, l’Italia prese delle decisioni che concretizzarono i dubbi degli alleati quali il meccanismo di controllo degli investimenti a livello europeo, una decisione a favore di trasparenza e quindi in contrasto con le politiche economiche cinesi, oppure la mancata presa di posizione a favore di Hong Kong e contro le repressioni di Pechino. Anche sulle nomine alla WIPO (Organizzazione mondiale per la proprietà intellettuale) l’Italia andò molto vicina al contrasto con gli alleati proprio a causa della possibilità di appoggiare un candidato cinese.

Verso la fine del secondo governo Conte, l’atteggiamento filo-russo e filo-cinese pare essersi ricomposto, riposizionandosi sui valori e i termini tradizionali dell’ultima politica estera italiana. Una normalizzazione avviatasi sicuramente a causa del cambio di governo, che ha portato il Partito Democratico a Palazzo Chigi, una formazione politica meno estremista e più sicuramente più conscia del posizionamento internazionale dell’Italia e della necessità di conservare un certo credito anche nelle invise cancellerie occidentali. La pandemia ha accelerato questo processo, dato che Giuseppe Conte, con inaspettata abilità diplomatica, è riuscito a cucire il Recovery Fund proprio assieme alle istituzioni europee, alla Spagna, alla Francia e alla Germania.

L’atlantismo di Mario Draghi

La svolta è arrivata con il governo di Mario Draghi, il quale fin dall’inizio del suo mandato ha compiuto delle scelte che hanno chiarito la posizione internazionale del Belpaese. Il ritorno all’europeismo, avviato già con la nascita del secondo esecutivo di Giuseppe Conte, viene rafforzato da una convinta affermazione dell’atlantismo filo-americano. Alla posizione dell’ex BCE si aggiungono elementi mai visti negli ultimi anni quali la convinzione di dover contrastare l’ascesa cinese assieme agli americani e il rilancio di una competizione a tre che comprende l’Unione Europea, non più soggetto diplomatico assente bensì partecipe delle vicissitudini internazionali che si affacciano nel nuovo decennio.

Nonostante le certezze di Mario Draghi, alcuni vedono nella sua doppia fedeltà a Washington e a Bruxelles un ostacolo all’affermazione di un europeismo realmente sovrano e indipendente dai desiderata americani, cioè in grado di poter dire la sua in un mondo che sta velocemente ritornando bipolare. Al G7, ad esempio, lui e gli altri leader europei hanno in sostanza ceduto alle lusinghe di Joe Biden, il quale è riuscito a strappare la promessa – che difficilmente verrà mantenuta nella sua interezza nel breve periodo – di adottare un atteggiamento meno distensivo nei confronti del colosso asiatico, diventato ora un nemico anche per la NATO, cioè militare.

A prescindere dalle varie e diverse valutazioni in merito, la discontinuità è evidente. Mario Draghi ha avuto modo di darne a vedere anche all’interno dei propri confini nazionali. La più importante dimostrazione viene da un evento molto recente, cioè l’esercizio del “golden power” – la facoltà del governo di esercitare un potere di intervento su acquisizioni in settori strategici – nei confronti di un gruppo di investimenti cinese (Shenzhen Investment), il quale voleva acquisire LPE, un’azienda milanese di 70 dipendenti che opera nel settore dei semiconduttori (chip). I microprocessori ormai, da diversi anni a questa parte, costituiscono la parte maggioritaria di un’ampia competizione tecnologica che coinvolge Cina e Stati Uniti. Una competizione che potrebbe degenerare rapidamente a causa della penuria di questi prodotti, causata da una lunga crisi causata non solo dalla malattia pandemica ma anche dalle frizioni tra l’amministrazione di Donald Trump e il regime di Xi Jinping. La decisione di intervenire, da parte di Mario Draghi, denota una scelta strategica in favore di un abbandono della posizione ossequiante nei confronti della Cina assunta dai precedenti esecutivi.

A questa decisione se ne aggiungono altre, prese di concerto con la Francia e gli altri Paesi europei, quali la volontà di bloccare l’acquisizione dell’azienda produttrice di veicoli pesanti IVECO alla cinese FAW, oppure l’uso del golden power per imporre condizioni più severe sull’utilizzo di componenti prodotti da Huawei per la costruzione della rete 5 G.

Ovviamente, il governo Draghi, come tutti gli esecutivi europei, non vuole – e non può – inimicarsi un partner economico e commerciale come la Cina. Dal settore dei microprocessori succitato a una bilancia commerciale che sorride sempre di più al dragone, che per la prima volta, nel febbraio 2021, ha superato gli Stati Uniti quale primo partner commerciale dell’Unione, Pechino ormai è parte integrante del mosaico economico globale e non può essere completamente esclusa dalle trame internazionali come fu per l’Unione Sovietica. Ecco perché, la promessa strappata da Biden non potrà essere mantenuta, almeno nel breve e medio periodo. L’Unione Europea, e con messa l’Italia, preferisce continuare a perseguire la consueta divisione tra “affari” e “politica” fino a quando non si renderà necessaria una strategia alternativa. Fino ad allora, l’UE farebbe bene a preparare un piano B.

Dal canto suo, il cambio di passo in materia di esteri è assodato. Ci si chiede soltanto se affermazioni così nette, seppur connesse al periodo e al deteriorarsi delle relazioni Washington-Pechino, siano funzionali al perseguimento di una strategia oppure soltanto affermazioni di principio. In quest’ultimo caso, è bene considerarne soprattutto i rischi.

Donatello D’Andrea

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