Altro schiaffo a Biden: Senato affonda le leggi sul voto

Il presidente Joe Biden non trattiene le lacrime in diretta tv.
Il presidente Joe Biden in una foto d'archivio. EPA/Stefani Reynolds / POOL

WASHINGTON.  – Altro schiaffo a Joe Biden poche ore dopo la conferenza stampa per il suo primo anno alla Casa Bianca, mentre sembra stringersi il cerchio su Donald Trump per il suo tentativo di rovesciare l’esito delle presidenziali.

Il Senato ha affondato non solo le leggi a tutela del diritto di voto, una delle priorità della sua agenda, ma anche il tentativo dei democratici di cambiare le regole dell’ostruzionismo per approvarle con la maggioranza semplice (51 anzichè 60) di cui dispongono sulla carta. Nel secondo caso però la colpa è di due senatori centristi del suo partito, Joe Manchin e Kyrsten Sinema, che avevano già anticipato le loro intenzioni di non modificare il ‘filibustering’ per non dividere ulteriormente il Paese. Una debacle quindi annunciata, ma non per questo meno amara e pericolosa in vista delle elezioni di Midterm a novembre. Anche perché si tratta degli stessi senatori che stanno bloccando il “Build Back Better”, il piano da 1900 miliardi per welfare e clima che ora Biden spera di veder passare ma ridimensionandolo e spezzettandolo in singole leggi.

In conferenza stampa il presidente ha cercato di scaricare la responsabilità delle promesse mancate ad una opposizione del Grand Old party che non si aspettava. Ma la realtà è che le maggiori difficoltà arrivano proprio dal suo partito, diviso tra l’ala progressista e quella moderata, cui appartengono Manchin e Sinema. Il leader dem del Senato Chuck Schumer ha voluto procedere lo stesso con il voto, anche a costo di esporre le profonde spaccature interne, per inchiodare tutti alla propia responsabilità di fronte ad una “minaccia esistenziale”.

“Sono profondamente deluso che gli Stati Uniti non siano riusciti a difendere la nostra democrazia, ma non sono scoraggiato”, ha commentato il presidente dopo l’ultimo flop in Senato (48 a 52), promettendo che la sua amministrazione “non smetterà mai di combattere per garantire che il cuore e l’anima della nostra  democrazia – il diritto di voto – sia protetto ad ogni costo”. “Esploreremo ogni misura e ogni strumento a nostra disposizione”, ha aggiunto, denunciando il crescente numero di Stati repubblicani che stanno approvando leggi restrittive sul voto, penalizzanti in particolare per la minoranza afroamericana, decisiva nell’ elezione di Biden.

Ma per ora le sue armi sono deboli. Come l’ immagine che ha proiettato nelle due ore di conferenza stampa, scivolando anche sulla gaffe in cui è parso dare disco verde a Vladimir Putin in caso di una “piccola incursione” in Ucraina, salvo poi chiarire l’indomani che “qualsiasi sconfinamento di truppe russe è un’invasione”.

Ma sembra mettersi male anche per Donald Trump, sempre più assediato dalle inchieste. Non solo quella della procura di New York sulle presunte frodi fiscali della sua holding. Ma anche quella della commissione della Camera sull’ assalto al Capitol del 6 gennaio, nonché della procura di Atlanta che indaga sul suo tentativo di rovesciare l’esito delle presidenziali in Georgia e che ora ha chiesto un gran giurì speciale per interrogare testimoni che si rifiutano di collaborare in assenza di un mandato.

La Corte suprema invece, respingendo il ricorso di Trump sull’immunità garantita dal privilegio esecutivo, ha dato l’ok alla consegna di una ingente mole di documenti alla commissione da parte degli Archivi nazionali. Nel frattempo Stephanie Grisham, prima portavoce di Trump e poi chief of staff di Melania, ha testimoniato davanti ai deputati-inquirenti che l’allora presidente tenne una serie di incontri segreti nella sua residenza nei giorni precedenti il 6 gennaio con una ristrettissima cerchia di alleati e consiglieri  per discutere come evitare la certificazione della vittoria di Biden. E che le sue intenzioni di marciare sul Capitol dopo il suo comizio sono contenute nei documenti del Secret Service.

L’ultima mossa della commissione, e la prima che tocca la cerchia famigliare, è invitare a deporre  volontariamente Ivanka, figlia prediletta ed ex consigliera di Trump.

(di Claudio Salvalaggio/ANSA).

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