De Chirico, dentro e fuori dal tempo (VII)

“Autoritratto” (1920) – G. De Chirico

Ciò che vi propone la rubrica Al Nord della Polare, è una serie de pubblicazioni, le quali argomentano inizialmente intorno ai due termini quali sono “Spazio e Tempo”. Questi, nel susseguirsi delle pubblicazioni saranno applicati allo studio dell’arte pittorica, in particolare allo sviluppo artistico del 900, del quale sappiamo protagonisti diversi movimenti artistici. Accenneremo al carattere di molti confrontando le motivazioni, ma in particolare si darà maggior protagonismo all’opera metafisica, e quindi, al più grande Maestro del 900 Italiano. Vi invitiamo a seguire la lettura con dedicata attenzione, in quanto porta con se le premesse per capire l’arte e lo sviluppo di questa nel 900.


Individualista, immune a tutto ciò che non avesse a che fare con la pittura, De Chirico ha eluso ogni condizionamento dall’esterno, incurante del giudizio altrui ha seguito il proprio istinto senza timori d’incoerenza, ha dipinto tutto ciò che ha sentito muovendosi agevolmente nel tempo e nello spazio. Pessimismo e malinconia, ottimismo e carica di fiducia sorreggono il suo spirito, la sua tristezza, la sua solitudine narcisistica.

Il problema della solitudine, della malinconia, quello stato d’animo di depressione psicologica che, come è noto, De Chirico soffriva parecchio, quella tristezza che non lo abbandonerà mai e che nutrirà quei sentimenti già inquieti e delusi fino a fargli leggere il mondo come un immenso museo di stranezze. E’ sempre un uomo senza società quello che investe sia naturale, sia metafisico, gioca un ruolo cruciale. De Chirico sembra essere addirittura un uomo senza mondo, indipendente. Un uomo che abita sempre e solo sé stesso; o meglio la sua immaginazione. Il possesso di sé esige la solitudine.

Soltanto in un incontro con sé stessi si può ritrovare la propria realtà; quella che trova De Chirico, di realtà, è propriamente metafisica.

Nella solitudine la vita si concentra, si accresce, si universalizza, si estende in profondità, ma soprattutto in altezza, mentre associandosi agli altri li evoca tutti in sé.

Autoritratto con busto di Mercurio. (1923). G. De Chirico

De Chirico, evitando di consumarsi in mezzo agli altri, fermo nella sua solitudine si è edificato a semidio, oracolo, profeta, a Saturno Dio del tempo e dello spazio. Egli si pone come un singolo Dio atemporale che medita in totale isolamento svuotando il suo spirito da ogni esperienza, da ogni concetto appreso, fa `tabula rasa’ di tutto ciò che è stato conseguito con l’esperienza, annulla, svuota dai contenuti mutevoli le cose, le forma, mostrandocele per la prima volta nella loro qualità di cosa.

De Chirico per esprimere dei pensieri, delle sensazioni, libera la pittura dell’antropomorfismo che soffoca la scultura, lasciando che gli oggetti e le forme private del loro ruolo rappresentativo appaiano come pure epifanie del mistero. Vedere ogni cosa nella sua qualità di cosa, anche l’uomo, questo era il metodo di Nietzsche, questo era il metodo di De Chirico. Indagando intorno alle cose fisiche così come ci sono date da vedere, non come le viviamo ogni giorno, quelle cose che riempiono forse troppo la nostra esistenza, un frammento di architettura, un giocattolo, una statua, frugando fra queste, De Chirico ci porta al di là delle stesse, cogliendone il senso nascosto, il mistero, l’aspetto spettrale ed eterno, l’enigma che esse contengono.

Temuto e odiato da non pochi uomini del suo tempo, cambia pelle ogni qualvolta per scoprirsi sotto una che è analoga a quella precedente; ma tutti i suoi ‘io’, somigliano a quel Übermensch (Super Uomo) di Nitzschiana memoria.

La sua opera scritta o dipinta parla un linguaggio enigmatico, sfuggente, sostenuta dalla rivelazione e dall’intuizione Nietzschiana ne cela, ne confonde il corollario ermeticamente. “…Nel 1910, nella lettura delle opere di Nietzsche (…) capii il linguaggio di cui parlano le cose del mondo, le stagioni, le ore del giorno (…), tutto mi appariva strano e distante. Non si presentarono più oggetti alla mia immaginazione le mie composizioni non avevano più significato comune (…). Capii che tutto ciò che esiste al mondo va dipinto come un enigma, non solo i grandi interrogativi che sempre poniamo a noi stessi…”.

“La ricompensa dell’indovino” (1913) – G. De Chirico

Nato sul declino dell’Ottocento, De Chirico, ha conosciuto e vissuto il suo tempo, senza ereditare le mode le infinite teorie del secolo che rapidamente si moltiplicavano rovesciandosi a valanga sulle menti rivolte a pensare in modo sempre più frenetico al nuovo. Ponendosi al di sopra di tutto questo, De Chirico, non ne fa parte, egli, come il guardiano della chiusa, non va dietro al flutto. In un’epoca come abbiamo già sufficientemente visto nel capitolo precedente, in cui tutti o quasi, vivevano la velocità delle sensazioni e facevano della pittura un campo di estremo sperimentalismo, De Chirico, studiava Nietzsche e guardando al passato dipingeva paesaggi statici, bloccati come prigioni, in cui i prigionieri erano statue, manichini, fantasmi di un passato remoto e allo stesso tempo attuali, anzi più che attuali, attraverso un apparato scenico dove le comparse senza volto (manichini), istruiti per un’enfatica rappresentazione, sono calati in una dimensione extratemporale, narrando un inno tragico alla trascendenza.

“Le duo” (1914-15) G. De Chirico

Questi eroi di sempre (i manichini) non si muovono nella dimensione storica, anche se appaiono reperti arcaici, c’è, dunque, un certo rifiuto del tempo specifico, e non solo quello presente, ma anche di quello storico.

Kant scriveva, a tale proposito; che il tempo non è altro che la forma del senso interno, cioè dell’intuizione di noi stessi e del nostro stato interno, perché il tempo non può essere una determinazione dei fenomeni esterni, esso non appartiene alla forma, né alla posizione, ma solo determina il rapporto delle rappresentazioni del nostro stato interno.

De Chirico lascia al suo spettatore la scelta del tempo storico che più lo affascina, lo lascia libero d’inventarsi quelle ipotesi temporali quelle epoche dalle quali trae più stimolo la fantasia del singolo individuo. Ma tornando al rapporto fra De Chirico e il suo tempo, si può dire che la pittura moderna insisteva su problemi di ordine pratico, dove lo spazio è inteso come vita quotidiana sociale, De Chirico ignora un tale spazio occupandosi di problemi dell’esistenza; ne fissa il ritratto in uno spazio evocato, staccato, allontanato da un rapporto troppo diretto col reale. In lui, la conoscenza dello spazio non coincide, come in Cezanne, con la grana della pittura, bensì con la pregnanza evocativa con cui è stato nutrito.

“I giocatori di carte” (1890-1895) Cézanne

Questo, soprattutto fino agli anni ’20, dopo i quali, ripenserà lo spazio come fonte di una malinconia e una memoria che può diventare densità di pittura; nel senso di dar corpo alla pittura, come l’aria di cui lo stesso De Chirico parlava e che voleva dipingere e consolidare in una presa tattile, dolce e insieme potente.

Dopo un’infanzia trascorsa sulle rive del mare greco, delle quali il ricordo assumerà un valore determinante nello sviluppo della sua opera, insieme alla conoscenza delle città italiane, fatta nelle brevi soste di quel viaggio, iniziato dopo la prematura morte del padre, viaggiando spostandosi continuamente e dovendo traslocare di ‘malavoglia’ un po’ ovunque; in fondo, non si fermerà ne a Monaco, né a Firenze né a Parigi, né a Ferrara, bensì al di là di quella linea che segna l’orizzonte a cui da sempre aveva diretto il suo sguardo curioso.

Il legame con la Grecia è rinverdito e nostalgicamente ricordato dall’ambiente di Monaco, dove De Chirico giunge nel 1906, questa città era per la Grecia di allora il centro dal punto di vista culturale. Monaco era la meta auspicata per chi volesse approfondire gli studi artistici.

Piazza di Monaco

Monaco, a quei tempi, era un po’ come un’Atene dell’Europa centrale. Nonostante non fosse Parigi, era l’unica città che poteva rivaleggiare con Berlino.

De Chirico affermava un capovolgimento di valori a cui non tutti erano preparati, provocando così fazioni e prese di posizioni che andavano dal recupero del passato alla distruzione dello stesso. Si creò così un’atmosfera in cui spinte moderniste si contrapponevano a ideologie nostalgiche e conservatrici, protese al recupero del passato, di quella classicità visibile, soprattutto, come abbiamo già detto nell’architettura.

In queste città neoclassiche, fra le quali Monaco, dagli spazi dilatati e dagli accostamenti assurdi, non pochi pensatori e artisti tenevano viva nelle loro menti l’idea di una Grecia che andava dalle sue stesse origini, fino al più recente Romanticismo. Una Grecia di sogno, dunque, con cui De Chirico dovrà sostituire la reale Tessaglia di cui aveva nutrito lo spirito curioso e solitario. Da qui la considerazione che, se da un lato De Chirico lascia la Grecia, dall’altro (cioè da quello del mito) la ritrova al sud della Germania.

Questo prova che, in un certo senso, De Chirico non è mai partito, in quanto egli si muove in uno spazio e in un tempo che sono quelli del mito ellenico, di cui trova le prime radici significative per il proprio sviluppo attraverso i pittori Arnold Böcklin e Max Klinger da una parte più propriamente pittorica, dall’altra, dalla parte filosofica lo spirito dei padri del negativo: Friedrich Nietzsche, Schopenhauer, Weininger; i quali gli insegnarono la sovranità del sogno e l’urto che esiste nella nostra coscienza fra l’apollineo e il dionisiaco.

Autoritratto A. Boclin

 

“Autoritratto”, Klinger

 

Arthur Schopenhauer

 

Friedrich Nietzsche

La confluenza di questi, più il ricordo del mito, e non solo, come avremo modo di vedere più oltre, gli permetterà di erigere quella struttura critica, freddamente alogica, unificando ciò che era, con ciò che è e sarà nel tempo, ma soprattutto fuori dal tempo e dallo spazio. Primo fra tutti Nietzsche, il quale esercitò sullo spirito dechirichiano, un dominio di cui la sua opera porterà il sigillo per lungo tempo.

A Nietzsche, De Chirico, nelle sue ‘Memorie’, attribuisce maggior merito per aver scoperto “…La strana e profonda poesia, infinitamente misteriosa e solitaria, che si basa sullo ‘stimmung’ del pomeriggio d’autunno, quando il cielo è chiaro e le ombre sono più lunghe”.

Infatti la metafisica di De Chirico nasce al calar del sole, quando la luce scivola ritirandosi all’orizzonte e nell’atto di abbandonare le strade e le facciate architettoniche, il contrasto chiaro-scurale lascia emergere le minuscole figure del filosofo e del poeta che passeggiando prima al fresco riparo dei portici, ora all’aperto, interrogano le ombre, proiettando verticalmente il loro pensiero nell’uniformità crepuscolare del tramonto e della notte, cercano di conoscere ciò che oggi minaccia di accadere ma che forse accadrà domani, o, per sterzata ironica, non accadrà mai.

Di Schopenhauer, De Chirico coglie l’originalità, la rivelazione delle apparizioni e la malinconica meditazione dell’esistenza.

Nel 1918 scriverà De Chirico: “Schopenhauer e Nietzsche per primi insegnarono il profondo significato del “non senso” della vita e come tale non senso potesse venir tramutato in arte, anzi, dovesse costituire l’intimo scheletro di un arte veramente nuova, libera e profonda…”

De Chirico, da Weininger coglie il senso trascendente delle forme geometriche e il simbolismo sessuale. Tra i romantici subirà il grande fascino di Arnold Böcklin definito dallo stesso De Chirico ‘pittore classico per eccellenza’.

 

“Lotta fra centauri”; A. Böckin

Di quest’ultimo ne approfondisce la conoscenza in casa del prof. Max Reger, presso il quale funge da interprete per il fratello Andrea; a tale proposito De Chirico scrive: “…Quando non avevo da tradurre in italiano i giudizi del professore sfogliavo un grande album contenente le magistrali calcografie che riproducevano i quadri di Böcklin…” e ancora in un passo delle ‘Memorie’ De Chirico, afferma di “aver già capito” (riferendosi a un momento collocato tra il 1905e il 1906) la profondità metafisica delle opere di Böcklin e Klinger. In Böcklin trova quell’iconografia che lo riporta all’infanzia, ai tritoni, alle sirene, ai centauri selvaggi abitanti dei boschi e dei monti della Tessaglia. Di Klinger ne esalta il modo bizzarro fantastico con cui egli rappresenta il mito, la lucida spettralità delle immagini, l’atmosfera rarefatta.

 

“Rapimento di Prometeo”; Max Klinger.

Per De Chirico, Klinger, sarà sempre un punto di riferimento, in quanto rappresenta il creatore che sa dare un nuovo senso alle cose semplicemente spaesandole. In alcuni di questi autori a lui preziosi, De Chirico ha ritrovato, ad altri ha sommato quelle figure mitiche come Ermete, Prassitele, Dionisio ecc. Figure che hanno nutrito la sua primissima formazione giovanile. Ora, al di là di un evidente contributo tratto dalla conoscenza di figure come Nietzsche, Schopenhauer, Weininger, Böcklin e Klinger, contributo messo in luce dallo stesso De Chirico sia negli scritti, sia nelle pitture, è diffìcile stabilire con esattezza il merito da ascrivere ad essi. Di certo è che, conoscendo De Chirico, e studiandone soprattutto l’infanzia, non poteva trovare padri spirituali più adatti alla sua indole, in quanto se è vero che questi molto hanno contribuito alla sua formazione estetica e pittorica; è vero anche che non sarebbero interessati allo stesso De Chirico, se non esisteva già in lui una tendenza caratteriale che preludesse una tale scelta. La Grecia, l’infanzia la sua famiglia, la morte del padre, il peregrinare prima di casa in casa, poi di città in città, di nazione in nazione, le ostilità incontrate, lo stato precario di salute e il conseguente isolamento. Tutte situazioni e circostanze da cui non poteva scaturire un personaggio quale egli è stato e darci un’opera così profonda e rara, come quella che lui ha battezzato con il termine `Metafisica’.