Maria Falcone: “30 anni a parlare di Giovanni ai ragazzi”

Il luogo della strage del 23 maggio 1992, sull'autostrada A29, nei pressi dello svincolo di Capaci nel territorio comunale di Isola delle Femmine, a pochi chilometri da Palermo.
Il luogo della strage del 23 maggio 1992, sull'autostrada A29, nei pressi dello svincolo di Capaci nel territorio comunale di Isola delle Femmine, a pochi chilometri da Palermo. (Franco Lannino. ANSA)

PALERMO. – La sua vita è cambiata all’improvviso un 23 maggio di 30 anni fa. La telefonata di una amica che cerca di capire se ha già saputo, lo sguardo stravolto del marito che ha avuto la notizia, le immagini dei tg che le raccontano che il fratello, Giovanni Falcone, è stato ucciso. Comincia da un tragico lutto la nuova esistenza di Maria Falcone, professoressa di diritto alle scuole superiori, madre di quattro figli, diventata per una tragica fatalità ambasciatrice di legalità.

I giorni che seguono l’esplosione di Capaci costata la vita al magistrato, alla moglie Francesca Morvillo e ai tre agenti di scorta, sono convulsi. Il via vai delle visite di cordoglio, alcune “eccellenti” come quella dell’ex Capo dello Stato Cossiga, i funerali di Stato e la rivolta dei palermitani, la città tappezzata dei lenzuoli bianchi diventati simboli di ribellione alla mafia, il pellegrinaggio sotto l’albero che si trova davanti casa di Falcone.

Ed è un biglietto lasciato da un palermitano di Ballarò, uno dei quartieri popolari di Palermo, a spingere Maria Falcone a raccogliere l’eredità del fratello e perpetuarne la memoria. “C’era scritto che la mafia aveva pensato di uccidere Giovanni, ma che invece aveva solo svegliato le coscienze”, racconta Maria Falcone. “Per me fu uno stimolo a non chiudermi nel mio dolore e reagire. Decisi pochi giorni dopo – spiega – di lavorare alla creazione di una fondazione che avesse come scopo custodire la memoria del lavoro di mio fratello”.

Nasce così la fondazione Falcone costituita con il contributo morale e ideale di tanti amici e colleghi del giudice come Giuseppe Ayala, ex pm, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello, membri del pool antimafia, l’ex giudice a latere del maxiprocesso Piero Grasso. Da allora Maria Falcone non si è mai fermata e ha girato l’Italia in lungo e in largo. “Ho cominciato dalle scuole – racconta – Perché tantissime insegnanti mi hanno invitato a parlare di mio fratello: prima in Sicilia, poi in tutto il Paese”.

Poi è stata la volta della assemblee cittadine, delle visite nelle carceri. “Ricordo un anno in Calabria: i detenuti organizzarono un’asta di quadri dipinti da loro, fu molto toccante”. L’impegno della Falcone diventa più istituzionale e organizzato con l’inizio della collaborazione con il ministero dell’Istruzione. “Sapevamo che la scuola era l’ambito più importante su cui lavorare per sconfiggere la mafia- spiega -. Come diceva Bufalino, Cosa nostra si vince con un esercito di maestre”.

Nasce così la nave della legalità che ogni 23 maggio, fino alla pandemia, ha portato a Palermo migliaia di ragazzi. “La città in cui per anni Cosa nostra ha spadroneggiato si è riempita di ragazzi che hanno fatto di un giorno di lutto una festa” spiega Maria Falcone che ha condensato questi trent’anni di attività nel libro, “L’eredità di un giudice”, scritto con Lara Sirignano, che sarà presentato giovedì 19 maggio al Salone del libro di Torino.

Dall’esplosione di Capaci sono trascorsi 30 anni, il tempo di una generazione, il momento giusto per un bilancio. “Ovviamente la mafia non è sconfitta – ne è certa Maria Falcone – ma tanto è stato fatto: culturalmente, giudiziariamente con gli arresti e le condanne di tantissimi mafiosi, legislativamente con le norme antimafia che ci rendono un modello nel mondo”. “Non dobbiamo mai distrarci perché la mafia ha la capacità di riprendersi quel che le abbiamo tolto – conclude la sorella di Falcone -. Ma sono convinta che non abbia vinto e che il lavoro di Giovanni non sia stato vano”.