Medvedev boccia il piano italiano, il Cremlino prudente

Vladimir Putin e il premier Dimitry Mededev in riunione con il Consiglio dei ministri a Mosca Danil
Il presidente russo Vladimir Putin (D) e l'expresidente premier russo Dmitry Medvedev (S) assistono a una riunione del Consiglio dei ministri a Mosca. Archivio.(ANSA/EPA/ALEXEY NIKOLSKY)

ROMA.  – Un piano messo insieme “leggendo i giornali provinciali e sulla base delle fake news ucraine”. Un prodotto di “grafomani europei” che non tengono conto della realtà. Insomma, un insieme di proposte che “non vale la pena di analizzare ulteriormente”.

Non ha usato certo giri di parole l’ex presidente russo Dmitry Medvedev per liquidare il piano di pace italiano per l’Ucraina. Frasi che vanno anche oltre i consueti toni sferzanti di colui che nella leadership moscovita ha assunto da tempo il ruolo del più duro censore dell’Occidente. A stretto giro è arrivata la risposta del ministro degli Esteri Luigi Di Maio: Medvedev, ha affermato, “non dimostra di volere la pace”.

Il Cremlino si è mostrato più prudente. “Aspettiamo di ricevere le proposte italiane per via diplomatica”, ha puntualizzato il portavoce Dmitry Peskov, ammettendo in sostanza che finora a Mosca sono arrivate solo le indiscrezioni pubblicate da Repubblica. A spiegare la natura dell’iniziativa è stato ancora Di Maio, che ha parlato di un lavoro ancora allo stato “embrionale”. “Oggi non ci sono le condizioni per la pace, abbiamo di fronte una guerra lunga e logorante”, ha riconosciuto il titolare della Farnesina. Ma il percorso delineato dall’Italia “parte da un gruppo di facilitazione internazionale e ha l’ambizione di arrivare ad una nuova Helsinki”. La Conferenza del 1975 che segnò la strada per la distensione tra i blocchi.

Nel frattempo però il ministro degli Esteri Serghei Lavrov ha lanciato strali contro un Occidente che accusa di avere assunto l’atteggiamento di un “dittatore”, avvertendo che ciò non avrà altro risultato che rendere “più strette” le relazioni tra la Russia e la Cina. Relazioni economiche, ha sottolineato Lavrov.

Ma evidentemente anche di altro tipo, come testimonia il sorvolo congiunto di jet militari cinesi e russi sul Mar del Giappone e sul Mar Cinese orientale mentre i leader del blocco dei Quad – Giappone, Usa, India e Australia – si incontravano a Tokyo.

Quanto al piano di pace italiano, l’ira di Medvedev – attualmente vice capo del Consiglio di sicurezza nazionale – si è concentrata in particolare sulle ipotesi di riportare sotto la sovranità di Kiev, con uno status autonomo, le province secessioniste del Donbass e la Crimea. Le Repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk non torneranno mai all’Ucraina, ha tuonato l’ex presidente. Ma è sulla Crimea che ha lanciato l’avvertimento più duro: cercare di riportarla sotto il controllo ucraino, ha affermato, scatenerebbe una “guerra totale”. Nessuna forza politica a Mosca lo accetterebbe, perché “equivarrebbe ad un tradimento”.

Anche l’Ucraina mostra di comprendere la portata della reazione militare che Mosca metterebbe in campo per difendere la strategica penisola dove ha sede la sua flotta del Mar Nero e che ha riannesso dopo 60 anni al suo territorio, nel 2014. Il presidente Volodymyr Zelensky ha escluso il ricorso ad un’azione militare, prevedendo che essa porterebbe a “centinaia di migliaia” di morti.

Mentre il ministro degli Esteri Dmytro Kuleba, in un tweet, ha elencato quattro obiettivi per l’Ucraina: “Respingere l’offensiva nel Donbass, far fallire i piani russi per annettersi Kherson, mettere fine alle torture, agli stupri e alle altre orribili violazioni dei diritti umani nei territori occupati, e sbloccare le esportazioni evitando una crisi alimentare globale”. Nessun riferimento, appunto, al destino della Crimea.

Oltre alle Repubbliche di Donetsk e Lugansk, Mosca pensa anche agli altri suoi alleati sparsi per i vasti territorio dell’ex Unione Sovietica. Per esempio all’ex presidente moldavo Igor Dodon, capo dell’opposizione filo-russa, fermato per 72 ore nell’ambito di un’inchiesta di corruzione.  Un affare interno moldavo, ha riconosciuto Peskov, chiedendo però che “tutti i diritti legali di Dodon vengano rispettati”.

E poi c’è l’Ossezia del Sud, repubblica separatista della Georgia. Mosca continua a garantirle piena assistenza. Ma, prudentemente, rifiuta di appoggiare un referendum per l’annessione alla Russia che l’ex presidente Anatoly Babilov aveva programmato per il 17 luglio e dal quale il suo successore Alan Gagloyev, insediatosi oggi, si è dissociato.

(di Alberto Zanconato/ANSA).