L’importanza della nostra lingua italiana

Una bambina scrive sulla lavagna: Italiano, la dolce lingua
Italiano, la dolce lingua

Negli anni 50, in Italia, per gli scolari, c’era muto divieto e tacito accordo di non parlare il dialetto in casa, anche se nonni e genitori lo facevano tranquillamente fra di loro, ma non con i bimbi. Questo perché il dialetto si praticava largamente e a discapito della lingua italiana che rischiava così di essere surclassata dal fenomeno sociale.

Come risultato la mia generazione non ha imparato il dialetto degli avi, e ciò ha generato in me (non so agli altri ) una specie di frustrazione, quasi quasi.. mi sentivo una genovese incompleta.

Il lessico ligure è per la stragrande maggioranza di derivazione latina ed elementi di superstrato germanico per lo più comuni all’area italiana settentrionale. E durante i secoli a causa dell’espansione marittima di Genova e dei traffici commerciali, i dialetti liguri si sono arricchiti di elementi lessicali di varia provenienza araba, greca ,spagnola, inglesi, francesi.

Io e mio marito risediamo in Venezuela da parecchio e l’idioma spagnolo ha sempre predominato, ovviamente, le nostre giornate e i nostri pensieri a tal punto che leggiamo in entrambe le lingue indifferentemente, senza predilezioni.  Per quanto mi riguarda.

“Il dialetto lo parlano ormai in pochi” mormora con cognizione di causa qualche persona anziana di cui ne ascoltiamo le lamentele quando ci ritroviamo a Genova.

Verissimo.

Un giorno però e all’improvviso, ho sentito la necessità di colmare questa assenza di suoni cosi famigliari, rassicuranti e amati che hanno scandito la mia infanzia, e ho deciso di studiare il dialetto genovese per conto mio.

Con difficoltà. Sia per l’astrusità delle parole che per le vocali particolarmente strette e chiuse come in francese. Allenavo la mia pronuncia leggendolo a voce alta e, senza scoraggiarmi, parlandolo poi tra me e me per captarne la fonetica. Tutto sommato credo che l’ esperimento sia riuscito discretamente.

Mi sono ritrovata per caso, in Venezuela dove ho sempre vissuto, a chiacchierare con un gruppo di signore due delle quali erano di Bari, due calabresi. Tra di noi padroneggiava lo spagnolo perché, mi spiegavano, l’italiano, lo avevano abbandonato, e i loro figli, pur capendolo non lo parlavano.

In cambio sapevano alla perfezione il dialetto e conoscevano persino molte specialità culinarie tipiche della loro regione. Le tradizioni erano salve, assicurate, affidate e custodite dalla generazione successiva.

“Sono queste – conclusero con orgoglio – le vere radici : il dialetto e sapere cucinare le prelibatezze che “in casa si tramandano da sempre!”

Quando mi è stato chiesto se anche io, da buona italiana del Nord avevo fatto altrettanto, sono scoppiata a ridere nervosamente. Avevano toccato un tasto dolente. E ho dovuto confessare. No. Non ho mai pensato di insegnare alle mie figlie né dialetto né cucina ligure anche se, lo riconosco, è una pecca.

Avrei dovuto farlo. Chiedo perdono alla mia Terra. Il dialetto rappresenta una vera e propria realtà culturale. Ma le mie figlie erano troppo occupate da quando a 4 anni cominciarono a frequentare la scuola americana in Venezuela, studiando cosi 2 idiomi contemporaneamente, anzi 3, perché l’italiano glielo insegnavo io, anche a scriverlo e leggerlo, (e si sa che i bimbi assorbono ma davvero davvero come spugne qualsiasi cosa venga loro proposta) mentre, per contro, ascoltavo con grande rammarico il racconto di amici e conoscenti (tanti) che in famiglia avevano accantonato la loro lingua natale: l’italiano.

E’ pur vero che se il dialetto è l’anima di una città, l’idioma è l’essenza di una nazione. La Voce del suo popolo. E come potremmo capirci tra di noi sennò?

Mi sconcerta e mi rende dubbiosa il pensiero di conversare con i miei compatrioti traducendo di volta in volta calabrese o emiliano, barese o veneto, bolognese o siciliano, troppi per farne l’elenco i dialetti nostrani, ma con un denominatore comune che, senza discutere, ci mette d’accordo tutti: il dialetto di ogni regione è incomprensibile alle orecchie altrui. Lo capiscono solo i nativi della medesima.

Persino fisicamente non esiste il prototipo dell’italiano-a: possiamo essere alti o bassi, snelli o tarchiati, di carnagione chiara o olivastra, occhi ceruli o nerissimi, capelli biondi e setosi come, se sei donna, nella Primavera del Botticelli , o neri e ricciuti come un sudamericano-a, col cranio pelato uguale ai bonzi e chi più ne ha più ne metta.

Inoltre, ma senza ferire nessuno, e con il pieno rispetto che si merita ogni regione d’Italia, ognuno è libero di sentirsi italiano a modo proprio.

Ci mancherebbe!!

..E difatti ognuno è fermamente convinto che la sua regione abbia i migliori meriti, la cucina più saporita, gli scorci panoramici più spettacolosi, il mare (quando c’è) più blu, il dialetto più abbordabile e simpatico.

E forse in fondo in fondo, un pizzico di verità c’è: Proprio perché cosi incredibilmente dissimile, ogni regione italiana, con alle spalle una Storia diversa, regala alla Patria la ricchezza di una differente genialità, una pennellata particolare, un tocco estroso ed unico in questo vortice di suoni, colori e profumi, in questo mosaico di bellezze naturali e artistiche inimitabili, bizzarramente riunite e racchiuse sotto lo steso cielo e che si chiama Italia.

Accomunandoci, (forse anche se solo), per la nostra Lingua Italiana. Che, essendo “irregolare” grammaticalmente parlando, “romanza e accusativa” come viene definita da qualsiasi dizionario antico o moderno, è sempre stata e sempre sarà ammirata, divulgata, ma soprattutto profondamente amata.

( GIMS)