Guardare o osservare?

Particolare di un tempio orientale.
Particolare di un tempio orientale.

Chiariamo subito che non esiste altro tempo che quello che ci è toccato vivere, e soprattutto che non esistono tempi migliori di quelli attuali. Il tema l’ho trattato in precedenti articoli e non mi ripeterò. Mi preme, però, fare un confronto su alcuni aspetti dei recenti cambiamenti che ancora non sembrano assorbiti a dovere, per cui la nostra impreparazione rischia di nevrotizzare, di fatto già lo fa, il nostro rapporto con la realtà in cui siamo immersi, trasformandola nella realtà che ci circonda.

Tutto parte dalla velocità di fruizione degli eventi messa in relazione con la capacità di assorbimento dei loro effetti su di noi: a maggior velocità di fruizione spesso corrisponde una minor capacità di assorbimento e, conseguentemente, si sviluppa un rapporto superficiale con la realtà, relegandola a un luogo che ci circonda. Fuga dalla realtà? Non necessariamente, potrebbe essere vero anche il contrario, tutto dipende da un terzo parametro, quello di maggior peso in quest’equazione, che è dato dalla persona, dal suo valore, dalla sua educazione, fattori che ne determinano la capacità di osservazione e di assorbimento, quindi di partecipazione, a questa realtà. O anche nuovo aspetto dell’evoluzione della nostra specie, e fattore che determina la capacità di sopravvivenza nel ritmo di vita frenetico a cui, ormai, dovremmo essere abituati.

Per intenderci, dato che siamo in pieno periodo di vacanze e, per molti di noi, di viaggi, facciamo un paragone proprio tra un viaggiatore di oggi e un viaggiatore di alcuni decenni fa. Per sviluppare questo pensiero ricorrerò ad alcune semplificazioni che, spero, non ci devieranno dal pensiero portante di questa riflessione, e cioè la differenza tra guardare e osservare.

Cento anni fa, e qui viene una semplificazione, dopo un’escursione, il viaggiatore fissava i suoi ricordi attraverso un diario di viaggio; per farlo gli occorreva tempo, ma soprattutto doveva prendere il suo pensiero e, insieme ai ricordi della giornata, svilupparlo in una traccia scritta mettendo, necessariamente, in fila e in ordine le idee. Il viaggiatore medio di oggi, invece, come prima cosa cerca la copertura di rete per condividere l’immagine (o il selfie) e spesso guarda il mondo attraverso un display senza sviluppare un pensiero. Già, perché dopo aver condiviso la prima immagine (magari in chat o in rete), si mette subito alla ricerca della seconda immagine da condividere. Veloce, senza pensieri e, soprattutto, senza pensiero. A ricordare ci pensa la rete.

Tanto prima come dopo siamo enti di passaggio tra l’evento e l’accumulatore di ricordi (in un caso le pagine, nell’altro la memoria in rete), solo che per mettere in fila e in ordine i pensieri ci si mette un tempo diverso; o forse oggi, con la fretta che domina i nostri viaggi, si delega un po’ troppo alla rete, magari dimenticando di dover ricordare con la mente più che con il PC. Insomma, si diventa quasi come gli scoiattoli che non ricordano dove hanno messo la ghianda. Non dico che vi sia una prevalenza del ricordo fatto immagine sul ricordo convertito in fila di pensieri, ma mi chiedo fino a che punto si può sostenere questo ritmo forsennato che non prevede emozioni al di fuori di quelle più immediate e meno contemplative. Insomma, ci stiamo trasformando, ma come?

Certo, tra le pagine scritte a fatica e la rete che contiene molte più informazioni forse è meglio la rete, ma il rischio è che questa frenetica condivisione si trasformi (oltre ad essere una miniera d’oro per chi vive di raccolta dati, come le reti sociali), in semplice veicolo pubblicitario perché, così funziona, “se l’ha fatto lui perché non posso farlo io?”.

Ma torniamo al punto principale del nostro ragionamento: una realtà patinata, fatta di fotogrammi che scorrono veloci al confronto della lentezza di accumulazione di ricordi, processo obsoleto che probabilmente consentiva una maggior capacità di osservazione. Ecco: siamo fatti per guardare o per osservare?

Lungi da me l’idea di demonizzare i nuovi limiti, imposti da una certa fretta di fruizione, ai quali va riconosciuto comunque il merito di offrire nuove opportunità di godimento. E poi, se cento anni fa un viaggio se lo poteva permettere qualche raro ricco borghese (o tanti emigranti analfabeti in cerca di lavoro in terre assai lontane e che invece di fissare i ricordi su carta si sono spaccati la schiena per mandare a scuola i propri figli), oggi se lo possono permettere diverse centinaia di milioni di persone.

Detto questo, l’approccio al viaggio rimane un aspetto da esplorare, anche perché rispecchia la cultura di ciascuno di noi, e può farci capire la differenza tra “incontro”, “confronto” e “scontro”, che poi diventa chiusura.

Incontro: la parola stessa indica un evento che apre la percezione, immaginate che incontrate per caso un amico, che fate? Aprite le braccia, sorridete, vi sentite bene dentro e sapete che lo stesso vale per l’amico. Lo sconosciuto, dal momento che non sapete se è amico o meno, lo incontrate con un punto interrogativo dipinto in faccia, ma sempre con l’apertura e la predisposizione all’ascolto o, ancora di più, con la capacità di stupirsi.

Confronto: qui abbiamo sempre una posizione certa da mettere sul piatto della bilancia, ben sapendo che sull’altro piatto c’è quello che state vedendo durante la vostra esplorazione. Se il confronto a volte è inevitabile, non è necessariamente negativo, tutto dipende dalla nostra apertura al dialogo e la nostra capacità di rivedere certe posizioni. Tuttavia il confronto è un rifugio nel quale non esiste lo “stupore”, perché questo fa paura.

Scontro: qui la posizione è di chiusura. O anche di uso dello stupore come meccanismo di difesa, nel senso che ci si stupisce che gli altri non siano come noi, e li si giudica manicheisticamente, perché il bene è sempre e solo dalla nostra parte. Questo può avvenire a seguito del rifiuto della posizione altrui o della realtà che si esplora, o anche a seguito della totale incapacità di vedere l’altro come una persona che ha tutti i diritti del mondo per essere quello che è. Alla base di tutte le guerre, di tutte le conquiste territoriali, di tutte le faide tra clan eccetera, c’è il rifiuto dell’altro, ma non solo: c’è il rifiuto del pensiero dell’altro. Che sia una difesa dalla paura del diverso che caratterizza gran parte della nostra umanità, o la pigrizia mentale che ci porta a ragionare per schemi precisi, o anche per dogmi religiosi, o la totale mancanza di accettazione delle ragioni del diverso per semplice ignoranza, si tratta comunque di un terreno di scontro assai presente nelle nostre culture.

Tornando al nostro esempio del viaggio, suggerirei di provare a risolvere l’equazione con la “capacità di osservare” contrapponendola alla semplice “voglia di vedere” (o, peggio, alla voglia di farsi vedere che deriva in un approccio derisorio se non razzista, ma non ci occuperemo di questo). Entrambe sono indispensabili, ma se la seconda prevale con prepotenza, si perde la sostanza della realtà, favorendo un approccio superficiale con ciò che si vede. Insomma, guardare vuol dire difendersi dallo stupore? In un certo senso potrebbe essere così, mentre osservare vuol dire reagire con la meraviglia allo stupore. Lo stupore è un’emozione, cioè un meccanismo di difesa, ma è anche apertura… e può essere seguito da paura o da meraviglia. O da altro.

E perché parliamo di stupore? Perché lo stupore ci denuda! E nudi dobbiamo essere quando affrontiamo il viaggio (che può essere tanto una gita domenicale fuori porta, quanto la vacanza lontano nel mondo). In tutto possiamo trovare la rappresentazione di queste emozioni, e allenare la nostra predisposizione alla percezione di questi messaggi di vita che ci indicano le nostre emozioni. Insomma, il viaggio può diventare l’incontro con i nostri archetipi (demoni, angeli, diavoli, spiritelli, spade, lance, fiamme eccetera…) che reclama che si mettano in fila i pensieri affinché da lì nasca “il pensiero”.

Gli archetipi, comunque siano stati rappresentati nelle varie culture del mondo, e i simboli che li compongono, sono da sempre stati un linguaggio dell’anima da cui è impossibile fuggire. Certo, per noi occidentali, oggi, sono semplici immagini da fotografare durante un viaggio, eppure queste immagini ancora risiedono nel mondo dell’astrazione e ci parlano, sono ancora misteriosamente legate ai nostri istinti più profondi. Cambia la forma della rappresentazione, cambia l’immagine, cambia la veste estetica, ma i simboli che la compongono possono ancora avere la forza evocativa rivelatrice del senso profondo della vita che, se spogliato dai dogmi, ci rende tutti fratelli. Ed è lo stesso senso primordiale che si traduce in un sorriso quando due persone si “incontrano”, realizzando quel flusso magico che si chiama comunicazione e che rende le persone migliori. A noi sta trasformarli in fotogramma o contemplarli.

Ecco perché la capacità di osservare diventa un elemento fondamentale del viaggio affinché, invece di collezionare immagini nella memoria esterna del nostro accessorio tecnologico, si riesca a far rivivere quel senso primordiale che ci racconta ogni oggetto, ogni pianta, ogni goccia d’acqua, ogni segno di vita che troviamo sul nostro cammino. Non perdiamola!

Claudio Fiorentini

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