Comunque, «Made in Italy»


BOLOGNA, (NIP).– «Nuovi orizzonti per un nuovo futuro: le opportunità del ‘made in Italy’ nella globalizzazione». E’ Bologna la base della riflessione. L’occasione è data dalla XIII Convention Mondiale della Camere di Commercio Italiane all’Estero (CCIE). «Fare sistema» sembra ancora una volta la parola chiave, ma è chiaro che la globalizzazione è una sfida enorme. Tante eccellenze, si sa, dell’Italia, piccola appendice europea protesa nel Mediterraneo; ma quali mercati? Quale strumento potrebbe essere più utile – tra il marketing territoriale o la promozione integrata di tutti i soggetti dell’internazionalizzazione – perché l’Italia possa competere nelle nuove condizioni del mercato?


«Dobbiamo essere orgogliosi della nostra italianità» ha detto il presidente della Camera dei Deputati italiani Pier Ferdinando Casini, ma sulla necessità di far penetrare il marchio Made in Italy o il Made in Emilia Romagna/Made in Piemonte etc la discussione è aperta.


«Convergenza» è il parere del Vice Ministro delle Attività Produttive con delega al Commercio Estero Adolfo Urso, che riflette su marketing territoriale e promozione integrata.


«Oggi si parla di glocalismo, cioè di globalizzazione e localismo nel contempo – per Urso – e in termini economici significa che le opportunità esistono ovunque ma bisogna conoscere per scegliere».


«E’ come un mosaico» per Gianfranco Caprioli, Direttore Generale Promozione degli Scambi del Ministero delle Attività Produttive. «E ‘ importante che ogni tessera sia complementare – aggiunge -: l’apporto territoriale è essenziale, a condizione che non si sovrapponga».


In mercati che chiedono rapidità di decisione, i ritardi dovuti a una dispersione in «campanili» potrebbero ostacolare la conoscenza e l’interesse nei confronti dell’Italia che produce. E quindi all’estero l’importante è portare l’Italia, in generale. Per gradi, secondo Caprioli. Questo il progetto ‘driver’ della strategia del Ministero:


«Tutto è centrato sulle PMI, la nostra ricchezza: si parte da una visita politica che non deve rimanere fine a se stessa – dice –, per poi passare a una country presentation, la costruzione di percorso con la partecipazione alla fiera, l’incontro con le controparti locali, l’intervento promozionale e finanziario. Da presenza di merci a presenza di imprese». Senza sottovalutare il ruolo dei cosiddetti imitatori o imprenditori che si ispirano ai prodotti italiani, purché non siano contraffattori: sarebbero loro a portare un primo approccio con l’italianità; poi il consumatore sceglie e riconosce le differenze.


La scelta tra marketing territoriale o promozione integrata per la penetrazione del marchio generico Made in Italy non si pone invece per Fabrizio Mottironi, Presidente di Buonitalia Spa. E’ il mercato di riferimento a fare la differenza, secondo lui: il marketing territoriale, quello che differenzia sulle eccellenze regionali e le tipologie relative al territorio, sarebbe utile per vendere in mercati maturi, «dove c’è già una conoscenza del nostro paese» spiega Mottironi. Un esempio in questo senso sarebbe quello degli Stati Uniti. Arte, automobili di lusso, design, moda, agroalimentare: delle eccellenze italiane parlano le immagini; parlano sì del territorio, ma per mercati culturalmente lontani come quello della Cina, sottolinea il Presidente di Buonitalia, si comincia trasmettendo il concetto di prodotto italiano in generale e non di quello siciliano, emiliano, piemontese o lombardo. La strategia per lui sarebbe quindi «realizzare prima nicchie di mercato in grado di accogliere poi anche i prodotti tipicamente locali». Rifiutare tale ipotesi di lavoro potrebbe significare perdere alcuni mercati o lasciarli in balia di «fabbricanti di spaghetti con ricetta tailandese che possono alterare il gusto del consumatore locale» a scapito del vero prodotto italiano. Certo la differenza la fanno anche i consumatori: «I prodotti italiani possono vincere – dice Mottironi – solo su chi sa apprezzare e ne paga le caratteristiche. La qualità ha un costo – aggiunge – e si rivolge e determinati acquirenti».


La domanda rimbalza a chi organizza una parte delle promozioni all’estero: marketing territoriale e marchio Made in Italy possono andare di pari passo, ma anche Andrea G. Lotti, rappresentante dei Segretari Generali delle CCIEE concorda con il Presidente di Buonitalia: il segreto sembra essere studiare i casi Paese per paese. «Dove il prodotto italiano non c’é bisogna create lo zoccolo duro – spiega -; dove c’è bisogna non trascurare mercati dati per acquisiti».


La Bulgaria sembra, nelle parole del Presidente della Camera di Commercio italiana di Sofia Marco Montecchi puntare già sul marketing territoriale, «anche perché non abbiamo capito come si fa sistema» polemizza. Secondo lui il riferimento alle eccellenze tipiche del territorio si fa inoltre anche come «parte dell’imprinting genetico».


Quanto all’esempio di Israele, è invece la promozione del marchio italiano a sembrare la strategia favorevole. Forse anche perché è una destinazione che punta a collaborazione nel settore ricerca.


«Il fatto che Ambasciata, Istituto per il Commercio Estero e Camera di Commercio italiana vadano sotto lo stesso tetto – spiega il Presidente della CCIE di Tel Aviv, Ronni Benatoff – é un esempio nuovo».


Dal Messico il vicepresidente della CCIE Nino Cossu aggiunge:


«Organizziamoci perché le opportunità di penetrazione ci sono, ma ci vuole intelligenza». Alessandro Barberis, Presidente della CCIAA di Torino non ha dubbi: «Il territorio non può farcela da solo e ha bisogno di un coordinamento con le istituzioni». Un dualismo ipotizzato che non piace nemmeno all’Ambasciatore dell’Istituto Italo-latinoamericano Paolo Faiola:


«Marketing territoriale e penetrazione del marchio made in Italy non sono in contrasto – dice -. L’essenziale è arrivare nel mercato con il Sistema Italia nel complesso. Non è difficile esportare la regione o la provincia: sono cose che già si fanno; ma si deve coordinare in maniera leggera».


Poi c’è tutto un mondo che ruota intorno a all’italianità e che guarda all’immagine generale e non a quella regionale: italiani all’estero e oriundi riscoprono l’offerta che viene dall’Italia. Su di loro, confermano Mottironi, Caprioli e Faiola vale l’immagine Ferrari. Ma sui mercati italici le fette di mercato dei prodotti italiani sono già presenti. Lotti ribadisce che se le CCIE sono nate con l’emigrazione è stata poi la presenza degli imprenditori a fare la differenza; parla poi di metamorfosi: il cambiamento riguarda i sistemi di promozione e la nuova conformazione dei mercati.


Il ponte sugli imprenditori di origine italiana per recuperarli nel sistema Italia è già partito: «Sto aspettando i company profile delle loro aziende – dice Caprioli -; vogliamo conoscerli, incontrarli: loro sono quelli che mi possono dire meglio di tutti come si fa business nel loro Paese». «Per noi sono punti di riferimento importantissimi – aggiunge il Vice Ministro Urso -, soprattutto in questa fase di globalizzazione e potrebbero essere partner ideali nei loro paesi».