Il miglior carpintero di Los Teques

LOS TEQUES – “C’è un signore di 96 anni che ha una storia speciale da raccontare, venite ad intervistarlo”. Questo l’invito volto alla Voce d’Italia dal viceconsole italiano di Los Teques, Teodoro Mascitti. Ovviamente, una vita lunga quasi un secolo vissuta nell’emigrazione significa una messe di storie e aneddoti: come potrebbe essere altrimenti? E allora eccoci curiosi a Los Teques, città caotica dalla popolazione incalcolabile (c’è chi dice un milione? Quien sabe) che nei primi anni cinquanta contava appena 16mila abitanti.


Mascitti è egli stesso una miniera di racconti di vita. Da quando, nel 1995, ha assunto la carica di viceconsole italiano – “è una carica onorifica, ma gli oneri sono molti di più degli onori”, dice franco, con un mezzo sorriso – ha conosciuto da vicino i problemi di migliaia di immigrati italiani. La comunità italiana censita è di circa 30mila persone, ma numerosi sono coloro che non sono conteggiati ufficialmente. La “sede” consolare si trova nell’ufficio di Mascitti, che di professione fa l’assicuratore. “Ho dovuto mettere un archivio: il 90 per cento delle carte riguardano pratiche di connazionali, solo il 10 per cento è della mia attività. E’ come gestire un comune, e io sarei il sindaco, solo che non ho delle risorse, ricevo giusto un rimborso annuale che non copre neanche l’attività di segreteria”, spiega.


Gli italo-venezuelani vengono da lui per sollecitare pensioni, chiedere consigli, un semplice aiuto nei rapporti con la lontana madrepatria. Luigi Masciangioli, il quasi centenario che ci apprestiamo ad incontrare, è uno di essi. A dire il vero, lui di persona qui non ci ha mai messo piede, ci viene con regolarità la moglie Jolanda, che infatti è venuta ad accoglierci, vispa e calorosa nonostante i suoi 82 anni. Don Luigi ci aspetta a casa, un appartamento che i due anziani coniugi dividono con la famiglia della figlia Gina.


E’ un ometto col basco calato in testa e uno sguardo allegro, Luigi Masciangioli. Seduto in poltrona, si alza per salutarci aiutandosi con un bastone. Cent’anni non sono piume, e portarseli appresso è di certo un peso, ma lui non sembra farsene un problema. Si risiede, gli spiegano il motivo della nostra visita. “Giornalisti?”, ripete in un italiano dallo stretto accento abbruzzese. Per incuriosirci Mascitti ci ha detto che vent’anni fa, dopo una lunga trafila burocratica, lo stato italiano ha riconosciuto a don Luigi un rimborso per i beni persi in Etiopia.  Etiopia? Partiamo da qui, allora, dall’ex colonia africana dove tra il 1936 e il 1941 finirono circa cinquecentomila italiani attratti dai sogni di gloria del Duce, per conoscere la vita di questo singolare personaggio.


Subito capiamo che non sarà facile raccogliere la sua testimonianza. La memoria di ogni essere umano è un flusso che segue direzioni illogiche, e più gli anni passano più è difficile mettervi ordine. Don Luigi, poi, mescola con grande facilità italiano a spagnolo, con qualche accenno di dialetto abruzzese quando si rivolge alla moglie. “Once anni ho passato in Africa”, dice con foga ricordando gli undici anni passati in quel continente. Ci tiene a raccontare l’episodio di guerra in cui rimase coinvolto, sembra rammentare ogni momento di quella tragedia. “Attorno a me erano tutti morti, eravamo a Gondar, io sono rimasto vivo per miracolo e un ufficiale australiano mi ha visto e mi ha portato via dal campo di battaglia. Ladysmith, in Sud Africa, è la che sono finito”. Fatto prigioniero dalle truppe britanniche Luigi venne portato in Sud Africa e in un campo di prigionia rimase fino alla fine della guerra. Ma che ci faceva in Etiopia? “Non ero fascista, fin da bambino andavo con il garofano rosso, ero comunista, ero lì per lavorare. Carpintero, come si dice? Come dite? Sì, falegname. Quello è stato il mio lavoro. Avevo un laboratorio assieme a due fratelli miei, più giovani, che ora sono morti. Quando cominciò la guerra ci hanno mandato a combattere e abbiamo perso tutto”.


Il suo mestiere, quell’arte del trattare il legno che aveva imparato da bambino dal nonno – “a otto anni aiutavo il nonno”, si illumina – gli portò fortuna, nel campo di prigionia. “Un giorno sono venuti due cura inglesi e hanno chiesto chi sapeva disegnare, costruire. Eccomi, ho detto”. Jolanda si alza e entra in una stanza, poco dopo ne esce con due foto ingiallite che documentano quello che Luigi ci sta per raccontare. Sono foto di una chiesa e di un altare, di fronte all’altare tre uomini. “Quello lì sono io”, dice indicando un uomo col berretto in maniche di camicia. “L’altare, la chiesa, lavoro nostro. Io e altri quattro l’abbiamo fatto. Debujo, carpinteria, tutto noi, io disegnavo”. E quanto ci avete messo? “Tre anni, più o meno”. Con altre domande cerchiamo di capire se il lavoro svolto dai prigionieri per la missione di San Giuseppe, a Besters, nello stato di Natal (leggiamo dietro la foto) abbia riguardato solo l’altare o tutta la chiesa. Luigi insiste che lui e gli altri tre hanno costruito tutta la chiesa, da soli.


Il rientro in Italia avviene solo nel dicembre 1946, perché i trasporti dal Sud Africa non erano molto facili, ci spiega. E poi? “E poi mi sono casado, ho preso lei”, dice guardando Jolanda, fedele compagna da 59 anni. “La migliore famiglia di Los Teques, mi ha detto una volta uno. Il miglior carpintero e la miglior famiglia, questo sono stato io”, sorride l’emigrante. Nel 1949 sfugge alle difficoltà del dopoguerra italiano e parte per Caracas, dove un paesano gli offriva un lavoro. In Italia lascia la moglie e il primo figlio, che lo raggiungono nel 1951. Altri tre figli nasceranno in Venezuela.


“Qua c’era tanta miseria, brutti momenti”, ricorda così il suo primo impatto con questo paese. Quello che gli è rimasto impresso è tuttavia il viaggio in aereo, durato tredici giorni, con varie tappe. Cerca di ricordarsele tutte: Germania, Irlanda, Groenlandia, poi gli Stati Uniti, Cuba e infine Venezuela. Non si ricorda se il volo era militare (quelle erano le rotte seguite dagli aerei alleati durante la guerra), ma per certo sa che durò tredici giorni, quasi un calvario.


Lasciato il primo lavoro, Luigi entra in una ditta come capomastro e lì rimane diversi anni finché non fonda in società con altri tre una ditta e si trasferisce a Los Teques. Qui la sua vita si colora di momenti fulgidi e grandi amarezze. “Sei volte mi hanno rubato tutto, tutto quello che avevo nel laboratorio”. Affranto da questa disgrazie Luigi a un certo punto della sua vita ha cercato di avere sostegno dall’Italia, e qui si è reso partecipe il viceconsole. Da un paio d’anni, meglio tardi che mai, l’Inps ha riconosciuto a Luigi Masciangioli una pensione di 600 euro.


Ha avuto nostalgia dell’Italia, in questi anni, don Luigi?, gli chiediamo. “Nostalgia? Nada nostalgia, sempre trabajar. Ho lavorato sempre, fino a ottant’anni”. Sorride sotto gli occhi della figlia e della moglie che lo coccolano come un piccolo tesoro. Un tesoro di quasi cent’anni.