Naufragio a Pantelleria: 2 morti e un profugo disperso

LAMPEDUSA – Non serve sparargli, muoiono da soli. Vittime del disinteresse generale e della mancanza di scrupoli di uomini che si arricchiscono sulla pelle di altri uomini. Così è successo per i 250 somali ed eritrei che il Canale di Sicilia ha ingoiato la notte del 6 aprile senza restituirne neanche i corpi; così è successo ieri a Pantelleria, dove è finito non solo il viaggio dell’ennesimo barcone partito dalla Libia ma soprattutto la speranza di vivere una vita migliore di due donne, annegate in un metro d’acqua.


Mentre l’Europa discute chi deve essere a farsi carico dei profughi, loro muoiono in quel mare che dal 1988, secondo i dati di Fortress Europe, custodisce le anime di almeno 16mila disperati. L’Unhcr aveva lanciato l’allarme: mancano all’appello almeno ottocento persone e uno su cinque non ce la fa ad arrivare. Il barcone con 192 profughi subsahariani che si è schiantato sugli scogli neri di Pantelleria ieri mattina è la prova. E solo la prontezza e il coraggio degli uomini delle capitanerie di Porto, dei carabinieri e dei vigili del fuoco, che si sono buttati in mare per ripescare i naufraghi, ha fatto sì che non si stia qui a fare la conta dell’ennesima ecatombe.


Il bilancio, comunque, e’ nero: due donne morte e un disperso. Morto anche lui per tutti tranne che per le statistiche ufficiali. Ironia della sorte, oggi doveva essere una giornata positiva: nel Centro d’accoglienza di Lampedusa c’erano soltanto una novantina di migranti e 34 minori, sull’isola sono arrivate solo 105 persone e 60 ne sono state rimpatriate: insomma, si sta tornando alla normalità. Ed invece è arrivata la tragedia.
L’incidente è avvenuto all’alba, quando ormai gli immigrati credevano di avercela fatta. All’improvviso il barcone, preceduto da una motovedetta della Guardia Costiera che era avanti per indicare la rotta giusta per il porto, ha scartato di lato ed ha puntato sugli scogli di contrada Arenella, dove si è schiantato. Il perchè non è ancora stato chiarito ma secondo alcune fonti non è escluso che chi era al timone della barca lo abbia abbandonato prima di arrivare sulla terraferma per confondersi con i profughi. Quella di lasciar andare la barca alla deriva e spegnere il motore, infatti, è una tattica che gli scafisti hanno spesso utilizzato a Lampedusa. Due presunti scafisci sono comunque stati arrestati e toccherà a loro spiegare al procuratore di Marsala, che ha aperto un’indagine ipotizzando i reati di omicidio colposo e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, come è andata. E’ probabile comunque che la barca sia rimasta senza motore e a quel punto è stata sospinta sugli scogli.


Presi dal panico, gli immigrati hanno cominciato ad agitarsi, facendo sballottare ancora di più la barca già in balia delle onde. Molti sono caduti in mare, molti si sono buttati presi dalla disperazione: chi ce l’ha fatta da solo è arrivato a terra con le mani tagliate e la paura negli occhi. C’erano anche 11 donne e sei bambini, su quel barcone. I più piccoli, chissà grazie a quale stella, ce l’hanno fatta. Delle undici donne, invece, due sono annegate e i loro corpi sono stati ripescati poco dopo dai marinai delle vedette. Morte in un metro d’acqua.
Chi è arrivato ha raccontato la traversata, confermando che in Libia nonostante la guerra il commercio di uomini è ancora attivo.


– Quello che fa salire la gente sulle barche – racconta uno di loro – è un pezzo grosso dello stato libico. Ci avevano detto che era tutto a posto, che saremmo partiti in cinquanta. Ma quando siamo saliti a bordo siamo diventati duecento.
Congolesi, nigeriani, ghanesi, liberiani e anche pakistani. Tutti in fuga dalle bombe e dalla povertà.