Marco Biagi, 10 anni dopo. Art.18 sullo sfondo del delitto

BOLOGNA – Marco Biagi come Roberto Ruffilli e Massimo D’Antona. Tre riformisti che hanno donato la loro sapienza giuridica alla riorganizzazione di uno scenario politico e di un mercato del lavoro in un mondo che cambiava troppo rapidamente. E che per questo sono stati accomunati dall’orrida fine che altri uomini hanno loro inflitto. Assassinati dalle nuove Br (Biagi e D’Antona addirittura dalla stessa pistola) che, dopo i disastri delle prime, si sono riaffacciati a distanza di anni per infliggere le loro sentenze di morte in nome di una sedicente ‘’giustizia proletaria’’.
L’Italia purtroppo ne ha centinaia di storie analoghe da raccontare, gli Ambrosoli, i Dalla Chiesa, i Bachelet, a partire da Aldo Moro. Uomini dello Stato, o servitori dello Stato, massacrati per questo loro mettersi al servizio della democrazia costituzionale. Prima Ruffilli, ucciso nell’88 a Forli’ per essere stato, a fianco di Ciriaco De Mita e nella Dc, ‘’uomo-chiave del progetto demitiano, teso ad aprire una nuova fase costituente, perno centrale del progetto di riformulazione delle regole del gioco, all’interno della complessiva rifunzionalizzazione dei poteri e degli apparati dello Stato’’, come si legge nella rivendicazione del delitto.
D’Antona e Biagi hanno qualcosa di piu’ in comune: sono stati consulenti del ministero del Lavoro, oggi detto del Welfare, hanno lavorato insieme col ministro Bassolino. Il secondo segue le sorti del primo, dopo l’assassinio del ‘99, e dopo essere stato consulente di Treu e Letta, centrosinistra, lo diventa del governo Berlusconi.
‘’Non vorrei che foste costretti ad intitolarmi una sala, come a Massimo D’Antona…’’, disse in una tragica e profetica battuta al ministro Maroni e al suo vice, Sacconi, prima di essere ‘’giustiziato’’ sulla soglia di casa per il suo Libro bianco sulla riforma del lavoro e per il suo impegno nelle modifiche all’art.18 dello Statuto dei lavoratori, allora come oggi al centro del dibattito politico, oggi come allora del feroce scontro politico e sociale. Nessun tema in Italia e’ stato cosi’ foriero di violenza e di sciagure come il lavoro, o il welfare, come si diceva. Nel caso di Biagi la vicenda assume l’aspetto paradossale. Puo’ un ‘’bersaglio’’ evidente come lui essere lasciato senza scorta, quando e’ chiaro (Panorama nel 2002 pubblico’ una direttiva del Ministero dell’Interno che indicava proprio in Maroni e nei suoi collaboratori la cima dei potenziali obiettivi di attentati terroristici) che lo siano? Nonostante cio’, e nonostante le richieste di tutela dello stesso Biagi, la scorta gli era stata revocata mesi prima. Gli stessi Br che lo uccisero dissero che anche per questo fu scelto come bersaglio.
Ma nella vicenda umana di Biagi ci fu pure il sapore della beffa. Le sue perorazioni, che nascevano non solo dall’analisi dei potenziali rischi, ma dalle minacce e dalle telefonate mute che arrivavano alla sua utenza, venivano prese come la sindrome di un visionario, o peggio, di un opportunista.
Celebre fu la battuta dell’allora ministro dell’Interno Scajola, che il 28 giugno 2002 defini’, parlando con un paio di giornalisti, il professor Biagi ‘’un rompicoglioni che pensava solo al rinnovo del contratto di consulenza’’. Poi, dopo le scuse, le dimissioni del politico Dc, accettate da Ciampi. Gli scontri sul ruolo e sul pensiero di Biagi sono stati epocali, in particolare tra la Cgil di Sergio Cofferati da un lato e gli altri sindacati. La critica del sindacato di sinistra sono state ribaltate, in molti casi, in una vera e propria istigazione al delitto, ovviamente respinta con fermezza: un conto e’ contestare, un conto e’ volere il morto.
Un dibattito che non si e’ mai sopito, come dimostrano le parole della signora Biagi, quella Marina Orlandi che nel suo silenzio assordante continua a gridare, con modalita’ tutte sue, la propria verita’: ‘’Mio marito sbeffeggiato e abbandonato. Lui i precari li voleva difendere’’. Lo hanno ucciso per quello, mentre veniva ‘’deriso’’ da chi lo doveva proteggere.

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