La minaccia di Monti: «Potremmo non restare»

SEUL – Il governo non è qui per “tirare a campare”, ma per fare delle buone riforme, a cominciare da quella sul mercato del lavoro. Ma se ciò non fosse possibile non cercherebbe di “durare” fino al 2013. Il tono di Mario Monti è pacato, come sempre. Non c’é ombra di minaccia nella sua voce, magari solo un po’ di stanchezza dovuta al fuso orario. Tra l’altro, quello di non tirare a campare, è un concetto che il presidente del Consiglio ripete spesso. Ma nel clima infuocato della politica dopo il varo della riforma del mercato del lavoro, assume un sapore diverso.
Il premier si presente davanti ai giornalisti intorno alle 22, ora di Seul. E’ stanco, ma di buon umore. Vuole parlare del summit sulla sicurezza nucleare e delle bilaterali avute a margine. In particolare con il premier, e “collega economista” indiano Singh, al quale strappa la promessa di una “conclusione amichevole” della vicenda dei marò. Rinvia fino al termine della conferenza stampa le domande sulle cose italiane. Sa benissimo che il tema è ancora la riforma del lavoro.
E lui stesso a farne cenno, riferendo dei colloqui con alcuni leader – Singapore e Canada – dove fondi pensione e di investimento hanno il potere di muovere lo spread.
– Mi sono reso conto di quanto seguano da vicino l’Italia – racconta il premier, rimarcando gli apprezzamenti ricevuti, ma soprattutto le parole di “apprensione” sul “quid” post 2013. Perché il desiderio di investire c’é, ma poi sorgono i dubbi: dopo l’attuale governo le riforme continueranno e la politica resterà fuori dall’economia? gli chiedono Lui li rassicura, cercando di spiegare che il clima è cambiato, che la politica sa di non poter più deludere perché sarebbe punita da cittadini più consapevoli e per questo pronti a scrfici anche duri. Lui stesso, confessa qualche ora prima in volo, sente il “peso” di decisioni difficili, ma anche la consapevolezza della loro ineludibilità.
Ad ogni modo, rimarca, per veder arrivare gli investimenti ci vorrà del tempo, ma l’importante ora è “sovvertire vecchi pregiudizi”. Cominciando proprio dalle riforme. Gli investitori, spiega il professore non leggono dei malumori per la riforma, ma di quello che scrive il Financial Times, che parla di ricetta giusta contro precariato e disoccupazione. Del resto, tutte le riforme così delicate suscitano “vive reazioni, ben comprensibili”. Ricorda di non aver avuto i tre anni concessi alla Germania, ammettendo che probabilmente la riforma sarebbe venuta “ancora meglio”. Respinge però le critiche di quanti, come Angelino Alfano, dicono che senza decreto l’Esecutivo perde credibilità. Per il professore è vero il contrario: il dl sarebbe stato possibile solo con il consenso di tutte le parti sociali che però, oltre a abbassare la qualità della riforma, sarebbe stato impossibile perché il sì della Cgil avrebbe comportato il no di Confindustria e altri. Insomma, pur ringraziando il segretario del Pdl, rivendica di aver fatto “una scelta di qualità. Ecco perché l’auspicio è che il Parlamento vari un testo quanto più possibile simile a quello del Cdm.
Il rischio di una crisi nella sua maggioranza non gli compete.
– Io rifiuterei il concetto stesso di crisi – sostiene – : siamo stati richiesti di fare un’azione nell’interesse del Paese.
Per chiarire meglio il concetto, con il consueto humor britannico, rispolvera un vecchio adagio di Giulio Andreotti:
– Un illustrissimo uomo politico diceva: ‘meglio tirare a campare che tirare le cuoia’. Per noi nessuna delle due espressioni vale.
Il suo obiettivo, ribadisce, “é molto più ambizioso della durata: è cercare di fare un buon lavoro”. Ecco perché se il Paese inteso come “forze sociali e parlamentari” non fosse “pronto per quello che noi riteniamo un buon lavoro, non chiederemmo certo di continuare per arrivare a una certa data”. Tuttavia, rimarca il consenso di cui gode l’Esecutivo in un Paese che si è “dimostrato molto più pronto di quanto immaginassimo”. Anzi, i segnali di “scarso gradimento” ci sono stati solo per “altri protagonisti del processo politico”, non per il governo. Detto ciò, è la chiusura conciliante, ora “il nostro dovere èßspiegare sempre meglio e in modo persuasivo questa riforma” affinché nessuno, per citare il suo ministro, ne faccia “polpette”

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