Colle, Pd e Pdl cercano l’intesa: rispunta Amato

ROMA  – Se intesa sarà, occorrerà attendere ancora: mancano infatti otto giorni dall’inizio dell’elezione del Capo dello Stato, troppi perchè i partiti possano già aver trovato un accordo su un nome. La trattativa è però aperta, come testimonia il primo faccia a faccia tra Pier Luigi Bersani e Silvio Berlusconi. Dialogo aperto non vuol dire comunque armi pari: il Pd rivendica la composizione della rosa dei nomi, all’interno della quale poi insieme al Pdl si dovrebbe pescare il candidato al Colle più alto.

Il tam tam dei corridoi parlamentari dà in ascesa le quotazioni rosa, tra cui primeggia la radicale Emma Bonino, seguita da un’altra esponente politica di esperienza come Anna Finocchiaro. In entrambi i casi però non mancano i detrattori: della prima c’è chi mette in discussione il profilo da pasdaran mentre sulla seconda peserebbero i timori del Cavaliere per la vicinanza al mondo della magistratura. Sempre nei Palazzi c’è chi vedrebbe bene un nuovo colpo di scena, con la promozione della neo presidente della Camera Laura Boldrini.

Alla fine però più che l’appartenenza di genere, vincerà l’identikit che garantisce maggiormente entrambe le parti. Ed ecco allora tornare in pole l’ex presidente del Consiglio ed ex ministro Giuliano Amato. Ancora in pista anche Massimo D’Alema, nonostante proprio ieri un grande quotidiano lo citi a proposito dell”affaire’ Serravalle (di cui il diretto interessato smentisce però di essersi mai interessato). Tra i papabili anche l’ex presidente del Senato Franco Marini.

Ci sono poi gli outsider: il presidente del Censis, Giuseppe De Rita, smentisce qualsiasi interesse a entrare nell’agone politico.

– Io – dice – vivo in un altro mondo.

Stesso scetticismo mostra il fondatore di Emergency Gino Strada, e che semmai avrebbe però potuto essere il potenziale candidato di una alleanza Pd-M5S.

– Io non ho parlato con nessuno – si schermisce – e nessuno ha parlato con me, la ritengo una cosa estremamente improbabile.

Nel caso in cui, alla fine, l’accordo tra i Democratici e Berlusconi saltasse, a tornare in auge potrebbe invece essere un altro big della politica come l’ex premier Romano Prodi. Lo stesso Grillo infatti nei giorni scorsi avrebbe lasciato uno spiraglio aperto a questa candidatura. Il M5S comunque da oggi sarà impegnato con le ‘quirinalie’, una sorta di primarie online per individuare il candidato al colle. E solo dopo, fa sapere il capogruppo Pd al Senato Vito Crimi, incontrerà i Democratici.

La storia: Corsa al Colle tra ‘franchi tiratori’ a impallinati eccellenti
La corsa al Quirinale, che si rinnova ogni sette anni, è il momento più alto del confronto-scontro tra le forze politiche, chiamate a trovare un ”padre della Patria”, un nome di garanzia per tutti. E’ un Conclave laico di ben 1000 grandi elettori dove, come succede da secoli Oltretevere, chi entra Papa spesso esce cardinale. Ma se nella Chiesa le bocciature eccellenti possono essere addebitate all’intervento dello Spirito Santo, nel Parlamento italiano spesso e volentieri esse sono frutto dell’azione di gruppi e correnti che si nascondono nelle file della maggioranza e che nel momento decisivo, protetti dallo schermo del voto segreto, fanno mancare i loro voti. Sono i franchi tiratori, bestia nera di qualsiasi maggioranza studiata a tavolino dai leader di partito.

Il termine ”franco tiratore”, mutuato dal lessico militare francese, è una fortunata locuzione che definisce da tempo un parlamentare che non segue le indicazioni del suo partito e che nel segreto dell’ urna tradisce le indicazioni ricevute. Il partito dei franchi tiratori si è fatto valere soprattutto nell’elezione del Capo dello Stato: nella storia degli inquilini del Colle (escluso il primo, Enrico De Nicola capo provvisorio in attesa della Costituzione), essi hanno avuto la loro parte anche solo come semplice minaccia di intervento, come è successo per personaggi come Moro e La Malfa. E’ stata soprattutto la Dc dei grandi cavalli di razza a vedere propri illustri candidati impallinati in aula dai propri compagni di partito. Tra le vittime più eccellenti, Amintore Fanfani, il professore aretino sei volte presidente del Consiglio, cinque volte presidente del Senato, due volte segretario della Dc, undici volte ministro. Nel 1971, colui che Dossetti aveva definito ”un uomo nato sotto il segno del comando”, era il candidato ufficiale della Dc al Quirinale. Sulla carta aveva una maggioranza a prova di bomba con la quale sperava di scalare il colle più alto della politica. Ma non ce la fece: si fermò a quota 384 voti, nove in meno di quelli che gli servivano. Sempre in quella elezione del 1971, che contò ben 23 scrutini, fu bruciato un altro cavallo di razza: Aldo Moro, gradito dalla sinistra ma, per questo, non dall’ala moderata del suo partito. Lo stop venne dai dorotei, da Piccoli a Taviani a Rumor. Quest’ultimo sussurrò a Moro ”tu sei cosi’ vicino ai comunisti…”. A quel punto Moro, inviso anche a Ugo La Malfa che lo considerava ”l’Allende italiano”, ritirò la sua candidatura per impedire di essere impallinato nel segreto dell’ urna dalla potente corrente dorotea. Alla fine la spuntò Giovanni Leone, pare con l’aiuto non richiesto anche dell’ Msi come gridò in aula Giancarlo Paglietta.

Il gioco dei veti e delle correnti ha sempre condizionato le elezioni presidenziali ma un altro caso eclatante è la corsa al Quirinale del 1992 che si trascinò per 16 scrutini e fu ”risolta” solo con l’ arrivo della notizia della strage di Capaci. Per i primi quattro scrutini, la Dc votò un candidato di bandiera (De Giuseppe), poi al quinto e al sesto scrutinio lanciò la candidatura di Forlani che mancò l’elezione rispettivamente di 39 e 20 voti, a causa dei franchi tiratori democristiani.

Quando fu decisa la candidatura di Forlani, il capogruppo della Dc Gerardo Bianco disse che il suo nome era passato per ”acclamazione” ma fu smentito nell’urna. I colpevoli furono subito individuati negli andreottiani che si vendicarono della decisione dei maggiorenti del partito di puntare, all’ultimo momento, sul segretario del partito dopo aver assicurato l’ appoggio ufficiale alla candidatura di Andreotti. Ma se per i democristiani la partita sembrò chiusa con la sconfitta di Forlani, non andò meglio per il Psi guidato da Bettino Craxi che lavorò per la candidatura di Giuliano Vassalli. Un nome di prestigio sul quale fu siglato l’accordo tra dc e psi. Ma Vassalli fu impallinato al 14cesimo scrutinio da ben 150 franchi tiratori che non accettarono le intese raggiunte dai segretari dei loro partiti.

“Agnosco stylum Romanae Curiae”, riconosco il pugnale della Curia romana, commentò il socialista Silvano Labriola sospettando un intervento del Vaticano sui deputati dc. Il record di 150 franchi tiratori è da allora insuperato. Ci volle il boato della bomba di Capaci che il 23 maggio uccise il giudice Falcone, la moglie e la scorta a scuotere il Palazzo e a imporre, anche sull’ onda dello sdegno popolare, l’immediata elezione del presidente della Camera, il democristiano Oscar Luigi Scalfaro con 672 voti su 1002 elettori.

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