Dante Maffia poeta tra le macerie del mondo

ROMA:- Io non sono capace di intervistare Dante Maffia! La verità è questa! È inutile mentirsi ad oltranza. Non ne sono capace. Ho provato mille volte, l’avvio giusto, le domande indovinate, l’equilibro assicurato!

L’equilibrio? Ma si può cercare un poeta vero e restare in equilibrio?  È proprio questo che succede quando m’imbatto nei suoi versi. Traballo, perdo l’equilibrio, incomincio a sentirmi timida. E Dante è un amico, dovrei sentirmi tranquilla e sicura a parlare con lui. Amico da tanti anni, amico di altri amici.

Eppure perdo l’equilibrio. Non sono capace di studiarlo, di analizzarlo, di porgere domande davanti ai suoi versi.

Come un pittore incapace di fermare il mare in movimento, come un flautista che non riesce ad incantare il serpente. Lui, il poeta, spennella un po’di rosa ciclamino (una delle sue immagini più riuscite)  e rende il mondo più fresco!

Ecco Dante io ti invidio, invidio la tua arte così naturale in te, così immediata. È inutile tentare di somigliarti, è inutile tentare di catturare i tuoi meravigliosi congiuntivi. Allora voglio provare ad intervistarti con questa invidia che mi rende fragile e questo ammaliamento per la tua poesia che mi stupisce. Un lupo del verso! Abilissimo, scattante e fiero.

C’è una fierezza arcana, atavica nelle emozioni di Dante. Una dignità di profondità e di silenzi rappresi, quando racconta di storie finite, di vite trascorse e poi d’improvviso s’accende di nuovo il respiro del mondo in un’immagine vivificante, fresca come i suoi ciclamini appenta sbocciati.

Hai scritto un libro indimenticabile La Biblioteca d’Alessandria, questo poeta della Biblioteca d’Alessandria che sanguina perché vede lo sfacelo dei libri, della cultura è completamente sincero. È questo il segreto, Dante, della tua poesia: la sincerità totale?

Credo che la sincerità totale dovrebbe essere il dato certo di tutta la poesia, altrimenti si può fare soltanto della letteratura, magari raffinata e suggestiva, ma priva di quel lievito umano, sociale, storico, lirico che serve a rinnovare le fibre del mondo. Non basta la sincerità, ovviamente, per scrivere versi che restino, che sappiano diventare misura e certezza dell’uomo, ci vuole una totale complicità con l’argomento

trattato, una sensibilità fuori dal comune e una cultura che sappia fondere a fuoco lento le accensioni, le vertigini che colgono il poeta quando “scopre” la dimensione nascosta della realtà, le sue incognite e i suoi misteri. Chi crede che la poesia sia un referto anonimo, la cronaca di un qualcosa, può produrre soltanto aridi documenti, ma non scintille capaci di rendere eterni i momenti offerti.

Dante, la poesia è un momento estremo? Riflette la sintesi dell’imbuto che scardina gli equilibri di sempre? È il terremoto devastante di un’anima?

La poesia è, insieme, tutte queste cose di cui tu parli, e molte altre. Mi sono divertito a trascrivere su un quadernetto centinaia di definizioni di poesia e centinaia di componimenti dei maggiori poeti di tutto il mondo e di tutte le epoche. Un mare immenso di affermazioni straordinarie che illuminano il senso di un lavoro così apparentemente inutile.

Molte delle definizioni sembrano essere risposte date ad altre, sono in contraddizione, si elidono, si negano. Eppure io non mi sono sentito, non mi sento di prendere una posizione, mi sembrano tutte vere, tutte esatte, tutte convincenti. Non so quindi se la poesia sia un momento estremo, so che è un momento irripetibile (in questo senso sicuramente estremo), che scardina gli equilibri perché non accetta il compiuto, il codificato, l’abitudinario, non è capace di vivere nella reiterazione, nel tautologico. Di conseguenza è anche terremoto che devasta l’anima, che la rende ineffabile e inquieta. Ma devastazione, inquietudine, ineffabilità devono trovare la strada per arrivare al lettore, altrimenti è puro esercizio di

stile, cornice ben fatta ma vuota e incapace di mutare la sostanza interiore di chi legge, incapace di essere contundente, di mettere scomodi, di far sentire la nudità del proprio essere.

 

La distruzione di qualsiasi mondo, la devastazione che porta l’evento naturale apre le porte soltanto alla poesia del dolore? Il collasso di qualsiasi equilibrio è sempre e soltanto morte? Cosa possiamo ricostruire dopo la caduta?

La caduta è quotidiana, comunque la si intenda, e dunque è una necessità che comporta la resurrezione, la ripresa, il progetto del rinnovamento. Naturalmente ci sono molti tipi di cadute, si veda, per esempio, quella di cui discute Camus.

Ma non voglio divagare, perché è una delle domande fondamentali che da sempre si trascinano sulla poesia. Nasce dal dolore? Sempre? Si nutre di dolore? E poi c’è soltanto la morte? Si sono occupati di questo problema in molti, io conosco le risposte di Attila Joseph, di Pasternak, di Maldelstam,

di Marina Cvetaeva, di Calogero, di Leopardi, di Luzi, di Gatto, di Valery, di Borges… sembrano atti giustificativi.

In realtà quando un certo sentimento trabocca, l’impeto espressivo si coagula in un grido. La gioia… invece passa e se ne va. Si pensi alle poesie d’amore. E difficile trovarne di allegre, eppure si tratta del sentimento che non ha l’eguale. I poeti, tutti, hanno la perennità del dolore e sullo sfondo la morte. Ne parlano, ci si crogiolano, ci fornicano, ma se si legge con estrema attenzione ci si rende conto che invece si tratta di inni alla vita, di parole-gesti che vogliono fermare l’inesorabile scorrere del tempo. Ecco l’altro elemento sempre in agguato e sempre subdolo. Ci sono versi di Leopardi che danno sussulti e cariche emotive efficaci e tutte imperniate sulla pienezza del piacere, dell’esultanza, della gaiezza.

“Primavera brilla nell’aria e per li campi esulta…”, basterebbe questa citazione a ribaltare il discorso. Ma bisogna ribaltarlo? Io, quando sono triste o malinconico, leggo Pascoli o Foscolo: mi portano in alcune radure che immediatamente mi fanno sentire pieno, eterno, e quindi lontano dal dolore e dalla morte. E poi, il dolore e la morte di cui parlano i poeti sono momenti di catarsi…

Chi sono stati i tuoi maestri? La vita stessa ti ha offerto di fare poesia: è stato il dolore, la gioia e la tristezza della vita che ti hanno spinto a cercare l’antidoto?

Nessun antidoto. Il dolore, la gioia, la tristezza, si sono fusi con l’amore, i viaggi, le letture, gli incontri, il paesaggio, le polemiche, i confronti, gli studi “pazzi e disperati”, le occasioni varie della vita. Io ne ho fatto un serbatoio di sensazioni, di emozioni, di pensieri, di progetti. Un continuo fermento che mi ha visto e mi vede spettatore, con infinite macerazioni da cui attendo il segnale. Di maestri ne ho avuto molti, ma li ho messi sempre in discussione, per crescere, per non adagiarmi nelle certezze. Diceva Goethe, e poi Proust ne ha fatto un vanto, che ad ogni approdo, ad ogni raggiungimento, rimetteva tutto in discussione e ricominciava daccapo. Così faccio io, niente mi soddisfa fino al punto da rinunciare alle curiosità, ad andare oltre, ad indagare a raggiera immergendomi nelle cose fino a soffocare per uscirne

nuovo e pronto alle successive battaglie.

 

Viviamo purtroppo un perido di catastrofi : terremoti, naufragi, tempeste. Dopo restano le macerie. Ne vediamo talmente tante, giorno dopo giorno. Le macerie della vita di tutti. Le macerie della nostra vita. Cosa ci spinge a raccontare la parte negativa della nostra vita. Un bisogno di sfogo, una parentela con il dolore di tutti, la volontà sotterranea di esorcizzarlo?

Vedi, ogni cosa contiene il suo doppio, il suo rispecchiamento, l’alter ego, il contrario. Le macerie sono un dato della vita, purtroppo, e raccontandole non facciamo altro che esorcizzarle, capirle meglio per evitarne le brutte conseguenze in seguito, per averne la consistenza in modo da valutarne l’impatto volta per volta. Quando raccontiamo di disgrazie non è soltanto perché vogliamo la compiacenza dei lettori che si sentono coinvolti dal patetico, ma anche per sondare la profondità delle sventure umane. Però, visto che le disgrazie presuppongono anche la felicità, tutto poi si svolge per il meglio. Il fatto è che l’atto supremo del vivere è la morte, ci piaccia o no, e quindi tutto ciò che in qualche modo ci avvicina ad essa è una maniera di allontanarla. Naturalmente è soltanto un aspetto del raccontare, poi c’è quello

della necessità di farlo e di farlo con la logica che da sé assume il comando della narrazione. Anche poetica.

Quanto contano i contenuti nell’opera di un poeta? Insomma la poesia è una questione di forma oppure il messaggio stesso è capace di fare poesia? Le opere di teatro di Eduardo De Filippo sono poesia?

Questione mai risolta, ma affrontata da tutti i teorici dell’arte e della poesia. De Sanctis ne ha parlato da par suo, poi Croce, per restare all’Italia, ma il problema è stato affrontato dai filosofi in tutte le sue sfaccettature. Per ultimo si legga Heidegger. Per esemplificare dico che un puro esercizio di forma tale resta, così come un contenuto che non bada alla forma tale resta, non diventa poesia. La poesia si realizza quando l’uno e l’altra trovano la perfetta simbiosi, suffragata da quella magia che dà scatto alla parola e illumina il contenuto portandolo in un’aura di rivelazione. Di per sé una storia non è poesia, il come viene raccontata è importante. Ma più importante ancora è verificare se ciò ch’è stato detto sia venuto da una necessità imperiosa o semplicemente da un’abitudine a scrivere. Insomma, la faccenda è complicata: vai a scindere forma da contenuto nella Commedia o nei Sepolcri. Le opere di Eduardo De Filippo sono poesia? In senso generico sì, ma in senso specifico no. Per me la poesia è una determinata cosa, con una sua storia e un suo modo di esistere, che nel tempo ha subìto variazioni e mutamenti, ma

che deve restare sempre legata a tracce del proprio essere, magari dilaniate e offese, ma pur sempre presenti. Le opere di Eduardo sono teatro, ma non teatro di poesia. Ovviamente la mia affermazione nulla toglie alla bellezza di pagine memorabili.

Bisognerebbe evitare di utilizzare poesia ogni volta che si prova un piacere qualsiasi. Quello della poesia è un coinvolgimento totale che presuppone un’apertura e una educazione e non soltanto l’adesione epidermica. Il teatro di Pirandello è poesia? Pirandello ha anche scritto libri di versi e ha dimostrato di avere scarse qualità. Dunque?

La poesia è nostalgia? È lo sguardo alla sponda che si allontana dei viaggiatori portoghesi e della loro languida saudade? O è anche la speranza? “Impareremo a cavalcare i cocci” ho scritto in una mia poesia, il progetto può esprimere un habitat poetico? Quale è il tempo del poetare? E tra le macerie, soprattutto, quale tempo dobbiamo tentare per tentare di nuovo la vita?

Anche. Ma nostalgia di che cosa? Del tempo perduto? Dell’isola non trovata, delle città sognate, di quelle invisibili? Del se stesso che arriva da un tempo senza tempo? Il duende di Lorca ci può illuminare, come ci può illuminare la saudade di Pessoa, ma si tratta sempre di verità parziali. E nel parziale entra anche la speranza. Certo, se impareremo a cavalcare i cocci molte cose cambieranno nel mondo e il progetto si farà da sé e si realizzerà perché saremo entrati in contatto con l’eternità. Invece siamo ancora alla fase del rompere i vasi e di dire indifferenti di pagare perché i cocci sono di chi ha combinato il guaio. Dunque perché non invertiamo la domanda? Un habitat poetico può esprimere un

progetto? Perché il tempo per poetare è perenne, non deve avere soste, non deve distrarsi. La parola del poeta deve saper essere ogni volta ciò che accade nel mondo per trarne il lievito giusto affinché si tramuti in tessuto sociale. C’è una domanda che mi pongo sempre ed è: “Senza il patrimonio dei nostri poeti maggiori e minori la nostra vita oggi sarebbe com’è?”. Io ne dubito. Perciò bisogna cercare il tempo dell’illibatezza, il tempo – c’è in ognuno di noi – in cui le cose sapevano essere suoni e sillabe e i suoni e le sillabe sapevano essere cose. La vita così non s’allontanerà e anzi cercherà di offrirsi nella sua pienezza. La vita non bisogna “sciuparla nel gioco consueto degli incontri e degli inviti / fino a farne una stucchevole estranea”, come dice Kavafis, altrimenti i cocci non si cavalcano, le macerie non si cancellano.

Mai come in questo momento storico, la cultura ferita sembra urlare e chiedere voce nelle città intasate di tutto ma deserte di anima. Nel parco illusorio delle vanità lo sguardo del poeta vero striscia e sguscia dove meno te lo aspetti. Forse fiorirà nei vicoli più sconosciuti, forse la voce del poeta all’improvviso urlerà tra le macerie di tutte le città devastate dalle meschinità di tutti i giorni. Forse come l’ululato di un lupo mannaro – è il titolo di un tuo interessante romanzo – si rivolgerà ancora alla luna per cercare quell’altrove poetico che dopo tanti secoli i poeti ancora cercano come il Santo Graal?

Ciò che è accaduto in Abruzzo, per esempio, mi ha molto ferito. Non potrò mai dimenticare certe scene di strazio, lo sfacelo che trionfa. Tuttavia dico che il poeta per fortuna non aspetta le intemperie e le catastrofi per urlare la sua indignazione, per svegliare le coscienze nella loro profondità. Il poeta non aspetta le “occasioni” per svelarci il mondo, per portarci nelle strade del deserto o della consapevolezza. Chi alzasse la sua voce soltanto in occasioni terribili come quella dell’Aquila, non potrebbe che essere un cantastorie stonato e repellente, interessato alla cronaca che subito passa e si sperpera. Nel cuore del poeta ci sono molti terremoti, proprio perché la sua è una lotta contro la mediocrità e la sciacallaggine che non aspetta gli tsunami per diventare repellente. Il poeta non cerca il Santo Graal, lo possiede. Piuttosto lo deve difendere dagli stupidi e dai creduloni superficiali, dal becero mercimonio che ne hanno fatto politici e mercanti di chiacchiere. Per il poeta la parola amore ha un significato diverso da

quello che gli attribuiscono gli altri, anche la parola pane ne ha uno diverso, perché per lui la poesia non è un sostantivo, ma un aggettivo consapevole e meraviglioso.

 Anna Manna

 

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