Naufragio Lampedusa, fermato trafficante somalo

PALERMO. – “Ho pregato Dio giorno e notte perché mi facesse rincontrare in vita quell’uomo per fargliela pagare”. Comincia così la deposizione di uno degli eritrei scampati al naufragio del barcone inabissatosi il 3 ottobre davanti alle coste di Lampedusa, costato la vita a 366 migranti. Un racconto drammatico che ha consentito agli investigatori di ricostruire la terribile odissea vissuta dai disperati fuggiti dal loro Paese in cerca di un futuro e di fermare un somalo, Mouhamud Elmi Muhidin accusato di essere tra i capi della rete criminale che gestisce il traffico di esseri umani. L’eritreo sopravvissuto era nel cpa di Lampedusa insieme ai suoi compagni di viaggio quando il 25 ottobre le sue preghiere sono state esaudite e ha rivisto il suo carnefice appena sbarcato sull’isola e portato nel centro di accoglienza. Il somalo – non è ancora chiaro perché abbia preso il mare per l’Italia – si è trovato faccia a faccia con la sua vittima, subito si è sparsa la voce della sua presenza e gli scampati al naufragio, dopo averlo riconosciuto, hanno cercato di linciarlo. La polizia, intervenuta per riportare la calma, ha interrogato gli eritrei che avevano aggredito Muhidin e ha scoperto il perché di tanto odio. L’uomo, hanno raccontato i testimoni, è tra i capi dei miliziani che intercettano carovane di migranti che attraversano il deserto tra Sudan e Libia per arrivare alle coste del Paese nordafricano, imbarcarsi e raggiungere l’Europa. I disperati vengono sequestrati, portati in un centro di raccolta a Sheba, in Libia, e trattenuti finché i familiari non consegnano alla banda, tramite emissari o money transfer, un riscatto. E un altro tentativo di linciaggio ha portato la polizia sulle tracce di un altro trafficante, Attour Abdalmenen, palestinese riconosciuto il 3 novembre, sempre nel cpa, da alcuni siriani come l’uomo che li aveva rapinati prima che, il 25 ottobre, si mettessero in viaggio il mare per l’Italia. Anche lui è stato fermato. “Ci ha minacciato più volte facendoci colpire con dei manganelli; – hanno raccontato i sopravvissuti accusando Muhidin – Addirittura un giorno dopo averci bagnati con dei secchi d’acqua ed allagato il pavimento hanno preso dei fili elettrici e dopo averli appoggiati a terra ci hanno fatto prendere una scarica. Ci prendevano in giro e ridendo ci dicevano che se morivamo loro erano contenti perché noi eravamo solo dei cristiani, esseri inferiori a loro musulmani”. Sevizie durate settimane con donne costrette a subire violenze sessuali continue. Il somalo fermato ne avrebbe stuprate 20. Ricevuti i soldi – fino a 6.600 dollari a persona – i criminali rilasciavano i prigionieri, li stipavano su furgoni e li portavano a nord di Tripoli: da lì venivano fatti salire sui barconi diretti a Lampedusa in cambio di altro denaro. “Ogni migrante frutta all’organizzazione oltre 7.000 dollari”, hanno spiegato gli inquirenti. Muhidin è accusato di tratta di esseri umani, associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, sequestro di persona e violenza sessuale. I testimoni hanno dato agli investigatori anche i nomi degli altri componenti dell’organizzazione, che ha certamente basisti in Italia, ma la situazione politica libica rende difficili le indagini per rintracciarli. “E se non bastasse – spiegano in Procura – la Bossi-Fini, che ci costringe a indagare i migranti, complica tutto, perché per potere usare le loro dichiarazioni occorre sentirli con un legale ed è poi necessario fare subito un incidente probatorio per cristallizzare le accuse prima che, lasciato il cpa, se ne perdano le tracce”.

(Lara Sirignano/ANSA)

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