Il petrolio della Jihad, 6 milioni di dollari al giorno

BEIRUT. – Undici pozzi sparsi tra la Siria e Iraq, che garantiscono un introito di oltre 3 milioni di dollari al giorno, e forse fino a 6 milioni, secondo fonti dell’intelligence israeliane. E’ questa la ricchezza petrolifera nelle mani dello Stato islamico (Isis), che i raid americani hanno preso di mira colpendo le installazioni per la produzione di greggio nella provincia orientale siriana di Deyr az Zor. Con gli introiti realizzati dalla vendita del petrolio sul mercato nero, il Califfato islamico proclamato da Abu Bakr al Baghdadi è stato finora in grado di continuare a rifornirsi di armi e di pagare lautamente i suoi miliziani, ma anche di comprare l’appoggio di tribù sunnite locali. Una potenza economica che nessuna organizzazione terroristica ha mai potuto avere finora. Nella provincia di Deyr az Zor, la più ricca di risorse energetiche in Siria, l’Isis controlla quattro dei cinque principali giacimenti. Mentre nei mesi scorsi ha cercato di impadronirsi, senza riuscirci, anche del giacimento di gas di Shaer, sulla strada tra Palmyra e la città di Deyr az Zor, capoluogo dell’omonima provincia. Proprio la vendita del petrolio a prezzi fortemente ribassati, sottolineano varie fonti in Siria, ha consentito allo Stato islamico di assicurarsi l’appoggio di clan tribali armati non solo nella provincia di Deyr az Zor, ma anche in quella di Raqqa, l’unica del Paese interamente nelle sue mani. In Iraq, solo con la produzione della regione di Himrin, nella provincia irachena di Diyala, non lontano dal confine con l’Iran, lo Stato islamico guadagnerebbe 600.000 dollari al giorno, secondo quanto affermato nei giorni scorsi dal sindaco di una città della regione, Oday al Khadran. Secondo questa fonte, i jihadisti riempiono circa cento autobotti al giorno di greggio, che viene consegnato a commercianti senza scrupoli a Mosul o in Siria. Qui viene venduto a mediatori stranieri a circa 4.000 dollari per ogni autobotte, circa l’80 per cento in meno rispetto ai prezzi di mercato in Europa. I contrabbandieri poi lo indirizzano, per quel che se ne sa, in varie direzioni: attraverso la Turchia, lo stesso Iraq o la Siria. Le destinazioni finali restano d’altronde nebulose. I giacimenti iracheni sotto il controllo dei jihadisti, nelle aree di Tikrit e della provincia di Al Anbar, sono minori rispetto a quelli ben più importanti nel sud del Paese, in regioni sciite che non sembrano minacciate dalla loro avanzata, e a quelli di Kirkuk, ad ovest della regione autonoma del Kurdistan, che le milizie dei Peshmerga hanno posto in sicurezza fin dal giugno scorso prendendo il posto dell’esercito di Baghdad, che si è dato alla fuga. L’Isis però non cessa di minacciare le più importanti strutture petrolifere del Paese, in particolare il complesso di raffinerie di Baiji, 40 chilometri a nord di Tikrit. Gli esperti ritengono che, anche se dovesse conquistare Baiji, lo Stato islamico non sarebbe in grado di far funzionare gli impianti. I jihadisti, infatti, si limitano a contrabbandare verso l’estero greggio non raffinato in cambio di valuta e di prodotti derivati. Oppure petrolio trattato in modo rudimentale con procedimenti artigianali, che tra l’altro provocano seri problemi di inquinamento. Ma la loro presenza a ridosso di uno dei più importanti siti del Paese resta comunque un fattore di incertezza che rischia di recare gravi danni ai progetti di sviluppo dell’industria petrolifera irachena.

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