Tomada, la guerra in uno scatto

Sebastiano Tomada
Sebastiano Tomada
Sebastiano Tomada

NEW YORK. – Narratore, romanziere. Ecco, questo è Sebastiano Tomada. Ma lo è a modo suo. Non usa parole. Sono superflue, accessori inutili; merce che non riuscirebbe a trasmettere i sentimenti e le sensazioni che invece Tomada sa agitare, incitare, accendere. Tomada ci parla della quotidianità, della nostra realtà attraverso le immagini.

Trasforma lo scatto in arte. Ci trasporta ai teatri di guerra attraverso il pianto di un bambino, lo sguardo triste e smarrito di un soldato o di una donna che, col figlio tra le braccia, stringe forte il mitra. Luci, ombre, riflessi di una realtà appena a poche ore da noi, grazie al miracolo della nuova tecnologia, ma che a volte ci appare molto lontana. Pensiamo non ci appartenga. Ma sarà vero?

Sebastiano Tomada, idolo per quei giovani che desiderano raccontare storie attraverso l’immagine, è nato a New York, a Manhattan. Ma è cresciuto a Firenze. Laureatosi nella Parson University, la sua carriera di fotocronista di guerra è costellata di successi. Suo è stato il prestigioso Word Press Photo Award nel 2013, il “Humanitarian International Red Cross (ICRC) Visa d’or award”. Recentemente gli è stato consegnato dalla “Italy-America Chamber of Commerce” il premio “Primi10 Society”.

Tomada ha conversato con la “Voce” poche ore prima di salire sull’aereo che lo avrebbe portato in Irak. Una conversazione aperta, schietta, sincera in cui è emersa la personalità dell’artista capace, con un click, di narrare storie di vita.

– Perché la fotografia? Perché ha scelto l’immagine per raccontare, trasmettere sentimenti ed emozioni?

– Mi è sembrato il modo migliore per mostraredi cosa ero capace – ci dice -. Una prova, una testimonianza reale della mia esperienza.

– Come si è avvicinato alla fotografia?

– Mia madre era fotografa, ma per diletto, per piacere – spiega -. Quando sono tornato in America ho deciso di studiare fotografia. All’inizio volevo diventare fotografo di moda. Poi, però, ho deciso di dedicarmi ad un altro tipo di fotografia: il reportage di guerra. Ho cominciato a viaggiare molto.

Chi ha avuto modo di ammirare le foto di Tomada sa quanti sentimenti esse riescano a suscitare. Pietà, compassione, orrore, rabbia, paura… E’ per questo che chiediamo:

– Che cosa vuole trasmettere attraverso le scene drammatiche della guerra che congela con un click e propone ai lettori?
Un attimo di silenzio, forse a voler ripassare con la mente i momenti drammatici vissuti e inquadrati nelle sue foto. Quindi commenta:

– Che cosa voglio… quale messaggio… In realtà nessun messaggio. La fotografia di guerra per me è una sfida. E’ riuscire ad avere l’accesso, l’aiuto delle persone nel teatro di guerra. Devi saper fare amicizia, guadagnarti la fiducia… La fotografia in sé è quasi secondaria. Viene in maniera spontanea, naturale. Per me la fotografia di guerra è stata sempre una sfida. Ed è l’aspetto che più mi piace.

Ci spiega che il suo lavoro viene, in un certo senso, facilitato dall’accredito dell’agenzia Sipa press, di grande prestigio nel mondo della fotografia. E’ un biglietto da visita importante che comunque solo si guadagna con lavoro e sensibilità.

– Che cosa consiglia a un giovane alle prime armi che vuole dedicarsi al foto-giornalismo, alla fotografia di guerra?

– Passione – risponde immediatamente -. Tanta passione perché è un mondo difficile. E’ molto complesso soprattutto dal punto di vista psicologico. La fotografia di guerra è anche particolarmente pericolosa. L’unico consiglio che posso dare al giovane che vuole entrare in questo ambiente – prosegue – è quello di cominciare a viaggiare, di lavorare su progetti personali da poter proporre alle riviste e ai giornali. Ecco, questo è un percorso da seguire prima di dedicarsi al reportage di guerra. La nostra è una professione pericolosa… E’ difficile dare consigli.

– Lei è stato in tanti teatri di guerra e ha vissuto l’esperienza dello scontro a fuoco. Qual è stata la sua reazione?

– Gli scontri a fuoco sono importanti e inevitabili – precisa -. Noi facciamo solo reportage in prima linea. Quindi siamo soggetti a rischi, sparatorie, attacchi.

Dopo una breve pausa, con voce grave commenta:
– E’ molto interessante. Sul momento non si ha paura. Le posso assicurare che, dovesse trovarsi in situazioni molto pericolose, il suo corpo, la sua psiche si adatterebbero immediatamente. Si va in “modalità” sopravvivenza. La paura non c’è, svanisce in un istante. E’ interessante osservare come reagiscono il corpo e la mente in un momento di rischio. L’esperienza mi insegna che la paura viene poi, nel post battaglia. Dopo effettivamente ci si rende conto del pericolo, di quello che è accaduto. Ed allora subentra la paura. Ci si comincia a chiedere cosa sarebbe accaduto se avessimo fatto una cosa invece dell’altra.

– Molti soldati, quando tornano, non riescono ad adattarsi alla società. Dopo mesi in prima linea, dopo tanta adrenalina, cosa si sente al tornare avivere in una città tranquilla come New York? Come si assume questa nuova realtà?

Ammette che è una circostanza molto difficile.
– In un primo momento, quando torno – confessa -, mi trovo un po’ perso. Non perché psicologicamente instabile … perso perché è difficile spiegare, a chi ti chiede, cosa si prova a stare in prima linea. E’ difficile raccontare le proprie esperienze. E’ impossibile spiegare cosa si sente, le emozioni… Sono emozioni diverse. Chi non c’è stato non può capire. A volte ci si ritrova soli perché, appunto, ci si rende conto che è impossibile comunicare nel profondo.

– Lei ha famiglia, una fidanzata… come vivono il suo lavoro? Come hanno assimilato le partenze verso teatri di guerra…

– La mia ragazza ormai si è abbastanza abituata a questo mio continuo viaggiare – ci dice -. Non ho fatto promesse, perché non se ne possono fare. Male ho assicurato che non correrò pericoli inutili. Anche nei teatri di guerra i rischi possono essere contenuti. Aiutano molto l’esperienza e la coscienza di ciò che si sta facendo.

– Come ha cambiato l’era digitale la professione di fotoreporter? Ha lavorato sempre con macchine fotografiche digitali o realizza scatti anche con quelle analogiche?
Spiega che “normalmente il lavoro si svolge con macchine fotografiche digitali” che hanno una loro versatilità. Anche così, però, nel caso di progetti personali, in zone di guerra, preferisce l’analogica.

– Sono tre gli elementi che caratterizzano lo scatto con una “analogica” – commenta -. Il primo è l’effetto sorpresa. Ed è quello che più ti eccita. Non conosci, fino a quando non sviluppi la foto, il risultato finale. Il secondo è il colore. I colori nel 35 mm sono bellissimi. E, terzo, il processo dopo lo scatto. Questo, con l’”analogica”, è molto complesso. Non che sia più difficile – precisa -, semplicemente più complesso. Ci si concede più tempo a “formattare” l’immagine, a creare l’immagine, alla ricerca della situazione perfetta. Con l’analogica, si fa molta più attenzione all’inquadratura e si ha solitamente un risultato migliore. Con la digitale si scatta e basta.

– Anche il colore nella foto ha un suo significato, un peso specifico. A volte si pensa che il bianco e nero rende le immagini più drammatiche.

– Nelle foto in bianco e nero – spiega – cerco di concentrarmi di più sui volti e sulle emozioni che questi possono trasmettere.

Aggiunge che “è tutto soggettivo”. Quindi, afferma:
– Siamo stati abituati a vedere le immagini di guerra, le prime immagini di disastri in bianco e nero. Quindi il nostro è un modello in un certo senso “formattato”. Si pensa al bianco e nero per le immagini più macabre, per trasmettere il clima di tragedia. Ma il bianco e nero non rende bene i colori del sangue, del fumo, del fuoco.

– Come si gestisce la fotografia di guerra oggi? Uno pensa ai famosi fotografi di Life e alle immagini tragiche della guerra in Vietnam. Anche tecnicamente, quali sono le differenze?

– Certo – ammette – le cose una volta erano assai più complicate. Ad esempio, per i fotografi famosi di Life, in Vietnam, era difficile coprire un evento. I rullini dovevano essere sviluppati, le foto stampate. E poi, dovevano essere spedite via posta. Potevano anche tardare un mese prima di arrivare in redazione ed essere pubblicate. Oggi non è più così. Con le nuove tecnologie e le comunicazioni satellitari, le immagini possono essere trasmesse nell’arco di un’ora ed essere pubblicate al massimo dopo due ore. E poi, i fotografi di Life portavano 6 o 7 macchine fotografiche. Oggi, se vuoi, puoi muoverti anche con una sola.

– Quante macchine fotografiche porta con sé quando accompagna la pattuglia di soldati? Quali lenti preferisce?

– Porto con me generalmente due macchine fotografiche – afferma –. Una con la lente di 35 mm e l’altra con quella di 50 mm.

Ci spiega che il 35mm è un grand’angolo che aumenta il campo di visione senza alterare l’immagine mentre il 50mm è l’ideale per i ritratti.

Per concludere, chiediamo:
– La concorrenza è tanta, e sempre assai spietata. Raggiungere la cima può essere relativamente facile. Mantenersi al “top”, invece, no.

– Bisogna avere la capacità di trovare storie sempre più difficili e complicate – asserisce -. Oggigiorno, il successo del fotografo di guerra non dipende dalla tecnica, che comunque si impara col tempo e l’esperienza, ma dall’accesso a storie e situazioni interessanti. Se non si ha l’accesso le assicuro che è poco quello che si ottiene. Diciamo che l’80 per cento dipende dal poter arrivare a persone e situazioni, il 20 per cento dalla ricerca e la produzione.

Salutiamo con un “in bocca al lupo” Tomada, che si appresta ad una nuova esperienza”. L’appuntamento è al suo ritorno dall’Irak.

(Mauro Bafile/Voce)

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