Sandra Vitale: “Porto con me i colori del tropico”

Sandra 3

CARACAS – “Del Venezuela mi porto il ricordo dei colori dell’esuberante vegetazione; della cortesia, simpatia e semplicità della sua gente. Sono arrivata non dico terrorizzata ma quasi. Purtroppo, in Italia quando si parla del Venezuela, immediatamente si fa riferimento all’insicurezza. Vado via con rammarico e tristezza”.

Sandra Vitale, oggi, è già inserita nello “staff” della nostra rappresentanza diplomatica-consolare in Etiopia. Ad Adis Abeba, a essere precisi; proprio nella città che l’ha vista nascere. Un ritorno alle origini, quindi, ai luoghi della sua infanzia, a una terra che conosce bene. Ne conosce la cultura, le tradizioni, la politica.

Ha lasciato tra gli italiani del Venezuela un gran vuoto. L’ha lasciato, in particolare, tra i connazionali meno abbienti, tra chi appartiene a quella fascia, ogni giorno più numerosa, che è meno protetta: gli anziani. L’abbiamo intervistata la sera prima della sua partenza, nell’ampio e confortevole appartamento ai piedi della “Sultana”, a “Los Palos Grandes”, quartiere di classe media nell’est della capitale.

– Quella venezuelana – ci racconta – è stata la mia prima esperienza in America Latina. Ho scoperto un nuovo mondo; un mondo chiaramente tanto diverso dall’Africa, dal Medio Oriente, dall’Iran. Ho avuto modo di apprezzare non solo le bellezze naturali del Paese, i colori tropicali, i ritmi ma anche, soprattutto, il calore della sua gente e la sua semplicità. Insomma, questo modo di essere aperti, cordiali… questi sorrisi. Credo sia una caratteristica del latinoamericano. A parte l’aspetto professionale, la parentesi venezuelana è stata una bella esperienza formativa.

Commenta che non aveva mai lavorato in un Consolato Generale dell’entità di quello di Caracas. E ci dice che già al suo arrivo in Venezuela “c’era sentore dei problemi che sarebbero venuti a galla”.
– Si capiva – sostiene – che la crisi si sarebbe aggravata. Ed io l’ho vissuta; l’ho vissuta intensamente. Ho vissuto tutta la “discesa”, il peggioramento del Paese. E a maggior ragione, l’ho vissuta poiché ho lavorato nell’Ufficio di Assistenza Sociale.

– Quindi a contatto diretto con la fascia di connazionali più esposti e più sensibili ai problemi del Paese…
– Esatto – ci interrompe – Ho avuto il contatto diretto con il connazionale meno abbiente, con il pensionato, con l’anziano. Ho avuto modo, quindi, di percepire chiaramente le difficoltà del Paese e di chi ci vive. E devo dire che il mio incarico ha richiesto un grosso sforzo, un grande impegno e anche una notevole energia. Ma, a livello umano, è stato assai gratificante; mi ha dato grosse soddisfazioni.

Spiega che in Consolato non solo si reca chi non ha avuto fortuna nella vita e oggi vive in precarie condizioni economiche ma anche chi, due o tre anni fa, godeva di una situazione economica relativamente tranquilla. Insomma, chi pur non vivendo negli agi poteva permettersi piccoli lussi ogni tanto. Ebbene, oggi anche loro hanno grosse difficoltà; anche loro fanno fatica a pagare le medicine, quando le trovano, e l’assistenza medica.

– Tutto ciò mi ha sconvolto – aggiunge –. Vado via triste perché non so come andranno a finire le cose; ma anche soddisfatta per aver fatto questo lavoro, per aver conosciuto a fondo queste persone. E’ stato un lavoro che mi ha coinvolto moltissimo. Sono entrata in contatto con persone con una grande umanità e umiltà; con una grande dignità. Credimi, sono sempre tornata a casa con una lezione di vita.

Assicura che i connazionali oggi in difficoltà continuano a credere nel Paese.
– Sono qui da decenni, hanno una vita in Venezuela. Non vogliono andar via. E’ vero che c’è stato chi ha chiesto il rimpatrio, ma sono stati veramente pochi.

L’intervista si svolge in un angolo dell’ampia sala arredata sobriamente. Verrebbe da dire “con gusto quasi spartano”. E si capisce. Come ci confida Vitale poco prima di iniziare la nostra conversazione, “tante cose sono state già imballate e inviate ad Adis Abeba. Resta l’indispensabile, giacché Aldo dovrà rimanere a Caracas”. Capo dell’Ufficio Amministrativo della nostra Ambasciata, Aldo Volini, infatti, resta in Venezuela ancora per qualche mese, forse un anno. Ci accompagna, con il sorriso che nasconde l’amarezza per l’imminente separazione dalla moglie. Ma dopo le prime battute dell’intervista, si ritira in un’altra stanza con la discrezione propria del diplomatico.

– Hai vissuto in una parte del mondo assai distante dall’America Latina, con culture e problematiche diverse. Quali differenze hai notato tra la nostra collettività e quelle che vivono in Africa, nel Medio Oriente, in Iran?
Sorride. Prende tempo. Forse cerca nello scrigno dei ricordi. Poi, spiega:
– Ho fatto il sociale in Etiopia. Ma l’ho fatto 25 anni fa. Ogni età ha un modo di percepire le cose, una diversa sensibilità. Sono stata poi a Dubai ma è chiaro che, in questo caso, non si può fare un paragone. Sono arrivata a Dubai nel momento di maggior benessere degli Emirati Arabi; di un benessere quasi eccessivo. Vi ho vissuto cinque anni. Allora la nostra collettività era in fase di crescita. Ma – commenta dopo una breve pausa -, era un altro tipo di collettività… erano connazionali che si recavano a Dubai per realizzare investimenti.

Nel caso dell’Iran, chiarisce che la nostra collettività era quasi inesistente; certamente non così numerosa come questa.
– In Venezuela – assicura – ho viaggiato moltissimo. Si sente, si percepisce il clima d’insicurezza e di paura. Ma noi, Aldo ed io, ovunque siamo andati abbiamo riscontrato una grande ospitalità; gente sempre col sorriso sulle labbra. Abbiamo trovato solo persone che ci hanno aiutato. Certo, è vero, abbiamo preso sempre le dovute cautele. Non abbiamo mai fatto pazzie.

Tornando all’Etiopia, spiega che l’emigrazione nel Paese ha un’altra storia. Di vecchia data, a differenza delle migrazioni in America, quella in Africa non è stata spontanea.
– I giovani – ci dice – vi erano inviati, come è accaduto ai miei nonni, col servizio militare. La loro non era una scelta meditata, come quella fatta dagli italiani del Venezuela. Parlo dell’emigrazione del ’36, quella dell’epoca del fascio. Mio nonno, da parte paterna, era stato mandato con la banda musicale. I miei si ribellarono al regime dell’epoca… Non hanno più fatto rientro in Patria proprio per questo motivo. Il nonno paterno – aggiunge con orgoglio – era un grande costruttore amato dagli etiopi. Lo stesso governo etiopico gli chiese all’epoca socialista di Menghistu, negli anni 70, di costruire la famosa piazza della rivoluzione di Addis Abeba… grande simbolo in questa città. Ci tengo a dirlo… Anch’io sono nata all’estero. Capisco i sentimenti che si provano quando si è lontani dalla propria terra. Sono i miei stessi sentimenti. Ancora adesso, quando ascolto l’inno italiano, mi emoziono. Credo che in Italia si sia persa questa sensibilità che, invece, è ancora assai viva tra gli italiani all’estero.

E sottolinea:
– Quando sono in Etiopia, mi sento italianissima; ma in Italia mi sento fortemente etiope. E’ una cosa bellissima, una strana sensazione. E’ una ricchezza straordinaria. I miei figli non fanno altro che ringraziarmi perché, dicono, “ci hai dato due culture”. Ed è quello che accade in Venezuela. Ho avuto modo di notarlo e di commentarlo. Quando ero allo “sportello”, capivo questa contraddizione; comprendevo il figlio del connazionale, che si sente fortemente italiano pur senza saper parlare la lingua. Chissà, forse ho una sensibilità maggiore dei miei colleghi; una sensibilità che deriva anche dal mio passato. Bisogna capire che non tutti hanno la fortuna di avere una famiglia in cui si parla l’Italiano. Non per questo si è meno italiani di altri.

– E’ parte dell’evoluzione. E’ normale che sia così…
– Sì, in affetti – ammette -. Questi giovani sono parte del nostro patrimonio… voglio dire… vanno rispettati… non denigrati. E’ una realtà che va accettata. Io ho avuto circa 600 assistiti. Sono persone di una grande dignità. Le considero un vero patrimonio culturale. Restavo ad ascoltare affascinata le loro storie. Hanno tante storie da raccontare, tutte interessantissime. Ripeto, questi connazionali hanno una grande dignità, una gran forza.

– Non tutti hanno l’energia per affrontare lo stress quotidiano che rappresenta il contatto con le disgrazie altrui, con i problemi piccoli e grandi di connazionali che dopo una vita di sacrifici devono chiedere assistenza al Consolato…
– Avevo detto al Console Generale che forse non me la sarei sentita di assumere una tale responsabilità – commenta -. Ero titubante. Avevo detto che non sapevo se ne sarei stata in grado; se, dopo la tragedia che mi ha colpito nel 2009, avevo la forza di affrontare l’impegno che richiede un ufficio così delicato. Tutti i giorni… tutti i giorni si è a contatto con persone in difficoltà. Sono entrata nella loro vita. Vi sono entrata anche fisicamente. Ora abbiamo un metodo di visite domiciliari che, a mio avviso, funziona benissimo. Si realizzano le visite e si documentano fotograficamente. Conosciamo, quindi, ogni dettaglio della vita dell’assistito. Non lo facciamo per invadere la sua “privacy” ma per capire meglio i suoi problemi e dargli l’assistenza di cui realmente ha bisogno.

Il suo sguardo, per un momento, pare assente. Abbiamo la sensazione che Vitale non stia più con noi, seduta nella poltrona accanto al comodo divano dal quale ascoltiamo e prendiamo nota.
– Devo dire che mi ha aiutato moltissimo – aggiunge -. E mi ha aiutato perché poi, alla fine, capisci che sono persone che hanno grossi problemi. Sono lezioni di vita. Spesso non si apprezza ciò che si ha. Ed è proprio questo, credo, che più mi ha aiutato in questo doloroso percorso di madre che ha perso un figlio. Mi ha fatto capire che non sono sola. In Venezuela ci sono connazionali che hanno perso due e anche tre figli. Uccisi, assassinati. Io con i miei connazionali ha instaurato un rapporto di amicizia, di amicizia vera. Parlavamo… io li ascoltavo.

Pone l’accento sulla necessità che spesso i nostri anziani hanno di comunicare, di parlare, di sentirsi ancora vivi.
– Spesso gli anziani si recano in Consolato non per chiedere un sussidio ma perché hanno bisogno di conversare, di sfogarsi, di non sentirsi soli, di sentirsi in territorio italiano. Come a dire… adesso che sono in Consolato, posso parlare. E io li lasciavo fare, li ascoltavo.

– Quali sono i principali problemi che sono esposti dai connazionali che si recano all’Ufficio di Assistenza Sociale?
– Molti hanno figli disabili – afferma -. Tanti chiedono l’assistenza medica. Non si tratta necessariamente di farsi ricoverare – precisa -. Magari hanno bisogno di un’infermiera; hanno il marito a letto da due anni e non ce la fanno più. Cerca d’immaginare una signora di 70 anni con un marito di 75 o 80 al letto da un anno o due. La poveretta, a quell’età, deve accudire il marito, pensare alla casa, e fare tante altre cose… Abbiamo anche casi di figli disabili che hanno già 50 anni e i genitori ultrasettantenni non hanno più la forza per assisterli. Spesso riusciamo a mandare un infermiere a ore. Non è gran cosa, ma aiuta ad alleviare il lavoro. Molte problematiche, poi – prosegue – sono legate all’assistenza medica. Abbiamo anche una piccola fascia, molto piccola… 3 o 4 persone che sono senza tetto. Siamo riusciti a fargli avere una pensione. Alle loro spalle probabilmente ci sono altri drammi… forse storie di alcol e di droga…

Spiega che la maggior parte dei connazionali chiede assistenza medica e medicinali. Purtroppo oggi in Venezuela manca ogni tipo di medicina. E per chi ha bisogno d’insulina, farmaci per la cura di chemioterapia, o di altre malattie è un vero dramma. Le cliniche e gli ospedali spesso non ne hanno e allora i malati devono tornare a casa.
– Sono problemi non irrilevanti –sottolinea -. Poi, lo sappiamo tutti, c’è il problema dei pensionati.
Le pensioni, ahimè, sono sempre più ridotte. Sono insufficienti per far fronte alle spese. Il connazionale non riesce ad andare avanti. Noi diamo un aiuto, l’assistenza. La pensione venezuelana, poi, è irrilevante. Mi dici come fa un anziano, che ha bisogno di medicine, di cure, a sopravvivere con una o due pensioni venezuelane o con 80 o 90 euro? E’ chiaro che non ce la può fare. Molti hanno la fortuna di avere figli che cercano di aiutare. Ma anche questi spesso ricevono stipendi da fame. Magari guadagnano 25 o 30 mila bolìvares. Mi vuoi dire come fa un padre, che ha uno o due figli da sfamare e da mandare a scuola, ad aiutare i propri genitori con un simile stipendio?

E’ uno sfogo che riflette la qualità umana di Vitale. Chi, come noi, ha avuto modo di vederla al lavoro sa con quanto impegno abbia svolto il suo incarico; impegno che, nella maggior parte dei casi, è andato oltre le proprie funzioni. Ad esempio, durante le “guarimbas”. A differenza di altri funzionari, che tiravano un sospiro di sollievo nel vedere che i giovani arrestati, pur essendo figli d’italiani, non erano in possesso della cittadinanza di cui in molti casi avevano pieno diritto, e si scusavano dicendo “non possiamo fare nulla, non sono italiani”, Vitale non ha mai lesinato sforzi per aiutare tutti, a volte riuscendo a riportare a casa il giovane, altre, comunque, accompagnando le famiglie nel loro dolore e preoccupazione.

– L’italiano che vive in Italia non capisce fino in fondo la situazione particolarmente difficile del Paese; non capisce le necessità di un connazionale che vive in una nazione immersa in una crisi economica…
– Devo dire – sostiene – che nonostante tutto il ministero degli Esteri non ha mai lesinato risorse. Nel Mae si sono resi conto della situazione che vive oggi il Venezuela. Pensa che solo nel 2015 abbiamo fatto circa 470 interventi in assistenza medica. Sono tanti. Le assicurazioni sanitarie spesso limitano il loro intervento e stabiliscono un tetto alla spesa. Allora i connazionali sono costretti a cercare aiuto altrove, una carta di credito a parenti e amici …. E’ una situazione molto complicata. Noi non esitiamo a intervenire. La fascia di età dei nostri assistiti è molto elevata. In realtà – conclude – i giovani che chiedono aiuto al Consolato sono pochi.

Sandra 2

Africa e America Latina realtà diverse

Insolite, singolari, differenti. Realtà diverse. Modi disuguali di affrontare la vita. Sandra Vitale ha vissuto l’Africa e l’America Latina. Due continenti con una loro singolare religiosità, con i loro costumi e le loro tradizioni.
– Mi affascinava l’idea di venire in Venezuela – confessa -. Sono stata in Iran. Venivo da un Paese in cui le donne sono coperte, tutte coperte. E arrivo in Venezuela e vedo le signore in pantaloncini, così disinvolte. Sono stata in Iran per 5 anni. Non è uno scherzo. Ho imparato il persiano. Quel paese mi ha realmente affascinato. Appena arrivata in Venezuela, le prime settimane quando uscivo, come un riflesso condizionato per un’abitudine coltivata per anni, mi dicevo… “Oddio, il velo…”. Poi mi rendevo conto che ero a Caracas e non a Teheran…

Spiega che la capitale iraniana è una città divisa in due. Il nord, la zona residenziale, dove le ragazze sono ultramoderne e il velo è indossato in maniera simbolica. Vi vivono giovani che hanno viaggiato in Canada, negli Stati Uniti in Europa; che hanno conosciuto il resto del mondo. Poi, a pochi chilometri verso sud, ci si addentra nella Teheran delle tradizioni, quella del mercato.

– Al sud della capitale – spiega – ti ritrovavi nella persia tradizionale; quella delle donne coperte e rigorosamente senza trucco; quella profondamente religiosa. In dieci minuti passavi da un mondo all’altro.
Ricorda, non senza nostalgia, i cinque anni di missione in Iran.

– Ci invitavano spesso a feste; feste che loro chiamano “underground” – ci dice sorridendo -. Ti invitavano a un parcheggio coperto. Trovavi un Dj “in”, musica moderna, ragazze bellissime in minigonna, whisky e bevande alcoliche. Poi, quando uscivi, percorsi pochi chilometri la città si trasformava. Erano due mondi; mondi completamente diversi che convivevano senza incontrarsi.

Insomma, l’Iran moderno, quello dello Shah di persia, e l’Iran profondamente tradizionale, quello di Khomeini.
– Anche lì il contatto umano è stato bellissimo Abbiamo viaggiato moltissimo. Abbiamo avuto modo di vedere tante cose interessanti e affascinanti… ma i colori vivaci che abbiamo trovato in Venezuela non li avevamo mai visti.

– Torni ad Adis Abeba… alle tue origini
– Sì – asserisce -. Torno alle origini. Diciamo che è la mia seconda casa. La mia vera casa è a Roma. Ad Adis Abeba non c’è un Consolato ma una cancelleria consolare. Andrò a fare i visti. Ad Adis Abeba vive mio figlio che è stato per tanti anni a Londra. Anche lui ha avuto questo richiamo. E’ il mal d’Africa. E un po’ l’ho anch’io. Un mal d’Africa nel senso… sono due culture… Quando ci nasci, conosci gli usi, il costume, la lingua… L’Etiopia è un paese molto spirituale, molto forte. E’ l’unico paese in tutta la regione ad avere una cultura importante e uno sviluppo economico assai interessante.

“Niky’s family Campaign”

Un fantastico calendario per l’educazione stradale. Un’idea nata dopo la scomparsa di Nicholas, il figliolo morto in un incidente stradale avvenuto in Etiopia nel 2009. Una tragedia che marca una madre per tutta la vita; una tragedia che ha mosso Vitale ad avviare ‘Niky’s family campaign’, la campagna internazionale per la sicurezza stradale. Primo risultato ottenuto dall’iniziativa, l’obbligatorietà anche in Iran dell’uso della cintura di sicurezza. Un successo non da poco.

“Riducete la velocità, salvate la vita vostra e degli altri”, è l’appello che si legge in apertura del calendario, corredato da stupende fotografie, sulla guida sicura realizzato da Sandra Vitale; un’iniziativa che, si pensava, potesse realizzarsi anche in Venezuela. Non è stato possibile. Ma non per volontà di Vitale. Le circostanze del Paese hanno richiesto tutta la sua attenzione altrove.

– Sì – ci dice -, c’era l’intenzione di fare qualcosa anche in Venezuela. Sono arrivata a giugno del 2013. Volevo iniziare nel 2014. Poi ci sono state le famose “guarimbas”. Però sì, certamente vorrei fare qualcosa anche in Venezuela. Insomma, si tratta di continuare quello che ho iniziato in Iran: sensibilizzare. Soprattutto far capire che chi ha subito tragedie familiari, come nel mio caso, ha il dovere morale di educare, coinvolgere, sensibilizzare. In Venezuela c’è un altissimo indice d’incidenti stradali che coinvolge i motociclisti. Se dovessi fare una campagna, la realizzerei fuori da Caracas. Ho notato che nella capitale l’uso del casco è oramai una norma tra i motociclisti. Nelle altre città del Paese no. Mio marito, Aldo, resta in Venezuela ancora per un po’ di tempo. Sicuramente tornerò. E allora chissà se il progetto del calendario in Venezuela non si trasformi in realtà.

(Mauro Bafile/Voce)

Lascia un commento