Usa2016: Resa conti tra repubblicani, i big non appoggiano Trump

FILE -- In this Nov. 22, 1990 file photo, President George Bush poses with soldiers during a stop at an air base in Dhahran, Saudi Arabia. (ANSA/AP Photo/J. Scott Applewhite, File)
FILE -- In this Nov. 22, 1990 file photo, President George Bush poses with soldiers during a stop at an air base in Dhahran, Saudi Arabia. (ANSA/AP Photo/J. Scott Applewhite, File)
FILE — In this Nov. 22, 1990 file photo, President George Bush poses with soldiers during a stop at an air base in Dhahran, Saudi Arabia. (ANSA/AP Photo/J. Scott Applewhite, File)

WASHINGTON. – E’ durato poche ore il tentativo di tregua nella guerra tra l’establishment del partito repubblicano e il ciclone Trump che ha rubato la scena e i consensi: dopo gli appelli all’unità per contenere il trauma del tycoon ormai ‘di fatto’ candidato del Grand Old party alla Casa Bianca, i vertici repubblicani ancora non si danno per vinti e rilanciano, ingaggiando un’ultima disperata battaglia, a partire da un boicottaggio di massa della convention di luglio dove il tycoon che corre solo verso la meta verrà con tutta probabilità ufficialmente incoronato.

Non ci sarà Mitt Romney, portabandiera moderato e già interpellato a più riprese in qualità di ‘saggio’ del partito, che dice così ancora ‘No’ a Donald Trump con un gesto dirompente e una mossa altamente inusuale. L’ex candidato Jeb Bush conferma la sua assenza e anche John McCain sembra determinato a saltare l’appuntamento.

E’ la ‘rivolta dei padri’, tra chi si trincera dietro un eloquente ‘no comment’ facendo un passo indietro come i due ex presidenti Bush che si sfilano da qualsiasi endorsement, e chi rafforza il monito contro il pericolo Trump, come il senatore dell’Arizona e due volte candidato alla presidenza John McCain che vede come conseguenza del tycoon candidato la fine della sua carriera da senatore nello Stato con il 30% dell’elettorato di origini ispaniche.

“La comunità ispanica è stata messa a dura prova – ha detto – e non l’ho mai vista così arrabbiata in 30 anni di carriera politica”. Come a ribadire che la campagna del magnate di New York che tanto parla alla pancia del Paese rischia allo stesso tempo di infliggere all’America e alla sua complessa natura profonde e pericolose ferite.

Di sicuro il partito ne esce malconcio. E non da oggi. Sono mesi che si manovra per fermare il fenomeno Trump, ma con l’unico risultato di guardarsi in uno specchio senza riconoscersi più: sottovalutata la forza dell’urlo antipolitica lanciato dal miliardario, sopravvalutata quella di un establishment rivelatosi incapace di esprimere un’alternativa.

Trump li ha stracciati tutti: dalla ‘giovane promessa’ Marco Rubio, al governatore solido ed affidabile John Kasich, fino all’ultima risorsa in extremis Ted Cruz. Ha fatto tabula rasa, ma adesso cerca di recuperarli uno ad uno, si autoproclama “unificatore” e pur senza cedere troppo – “io non cambio” dice – ripete di volere un vice ‘politico di professione’ e quantifica al 40% la possibilità di sceglierlo tra gli ex rivali per la nomination repubblicana.

Un corteggiamento serrato segnale che oltre l’ostentata sicurezza si cela la consapevolezza che alla fine del partito e dei politici ha bisogno. Anche per finanziare lo sprint finale, visto che emerge qualche cedimento sulla capacità totale di autofinanziamento.

Così nel mettere a punto la squadra per affrontare le elezioni presidenziali la prima nomina di peso è Steven Mnuchin, noto manager nel settore degli investimenti privati, scelto come responsabile finanziario della campagna. Il resto è tutto contro il ‘bersaglio grosso’, Hillary Clinton.

Del resto anche la ex first lady ha già dettato il nuovo tono della sua campagna che vede già come una sfida a due. In queste ore ha lanciato un feroce spot anti-Trump mentre rafforza il monito: “Il rischio è di un presidente fuori controllo”.

(di Anna Lisa Rapanà/ANSA)

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