Italia e Venezuela: ottimismo? No, grazie

luca

Sono un inguaribile ottimista. Lo sono sempre stato, anche di fronte a fasi e momenti che hanno lasciato segni e cicatrici profonde. Lo sono al punto da considerarlo un difetto.
Eppure non riesco ad esserlo se guardo all’attuale realtà italiana. Peggio ancora a quella venezuelana.
Il discorso è potenzialmente infinito, ma le mie (nostre) riflessioni non possono che partire da qui.
Andiamo con ordine o almeno proviamoci. E partiamo dall’Italia.
Una delle domande più frequenti cui sono costretto a rispondere, nel tentativo di spiegare il nostro sistema politico, è apparentemente banale, ma al tempo stesso dirompente: «come mai avete avuto una sfilza di presidenti del Consiglio non eletti dal popolo?». E altrettanto banale, certo meno dirompente, è la mia risposta: «lo prevede un meccanismo costituzionale». Già, la Costituzione. Altro capitolo attorno al quale potremmo aprire una parentesi (voragine?) pressoché interminabile. Altro capitolo sul quale torneremo a tempo debito, considerato l’orizzonte della consultazione referendaria.
Insomma, tecnicamente nulla di strano. Ed oramai anche gli italiani, con l’unica eccezione di Grillo e compagnia (che non stimo, ma che in questo caso ritengo essere nel giusto), sembrano essersene convinti. Ma in realtà, a delle menti estranee, meno ipnotizzate dalla cantilena dei nostri talk-show televisivi, il fatto appare a dir poco stravagante. O, a dirla tutta, assume i connotati di crepe nelle fondamenta democratiche.
Se a questo aggiungiamo dati economici puntualmente rivisti al ribasso, una crescita che latita oramai da tempo immemore ed un tasso di natalità tra i più bassi al mondo, ebbene, la “frittata” è fatta. Ed è abbondantemente condita dalla questione dei migranti. Bambini, donne e uomini di fronte ai quali è impossibile non provare compassione e sentimento di solidarietà (possibile per alcuni, vedi alla voce Salvini), ma di fronte ai quali è necessario porgersi con un atteggiamento diverso, più ampio, in qualche modo rivoluzionario. Non basta più gridare allo scandalo di fronte ad un’Unione Europea che, puntualmente nelle fasi più critiche, ci ha abituati ad un frustrante senso di solitudine. Così come non basta stanziare nuovi fondi per i centri d’accoglienza, oramai tecnicamente al collasso.
Sarebbe interessante sentire i nostri vertici parlare e parlarci in maniera seria e concreta riguardo ad un piano di stabilizzazione delle aree coinvolte nelle crisi. Su tutte, la Libia (davvero ad un passo dalle nostre coste), il Nord-Africa ed il bacino mediorientale.
E magari ricordarsi e ricordarci, così come affermato dal Dalai Lama, che «Europa e Germania – personalmente aggiungerei l’Italia che mi sta un tantinello a cuore – non possono diventare arabe».
Una posizione chiara, lucida, ben lontana dalle famose lacrime di qualche tempo fa di Federica Mogherini.
E veniamo al fronte Venezuela. E, a giudicare da notizie e commenti che affollano i giornali nazionali e stranieri, è proprio di “fronte” che si deve discutere.
Un vero e proprio bollettino di guerra, infatti. Guerra economica, ad esempio. E non quella , millantata dal presidente Maduro, che capitalisti o fascisti avrebbero scatenato contro il governo bolivariano. Ma quella che i suoi stessi uomini e soprattutto predecessori hanno fatto esplodere come una bomba nel bel mezzo del “mercato” del Paese.
Parlare di inflazione oramai non ha neanche più senso. Studiare il sistema dei diversi cambi vigenti richiede delle conoscenze che sarebbero più che sufficienti a conseguire un titolo ad Harvard. Approvvigionamenti fermi ai minimi storici. In alcuni casi addirittura vicini alla linea di confine dello zero. E non si tratta più, come accadeva alcuni anni fa, soltanto di schermi piatti o telefoni cellulari di ultima generazione. Si parla di alimenti, e non di cose raffinate, ma di quelli alla base della tipica dieta venezuelana. E di antibiotici. E di medicinali in generale. Insomma di cose che allontanano ogni giorno di più il Venezuela da quel Primo Mondo in cui meriterebbe di figurare non soltanto per via delle colossali risorse naturali, ma anche e soprattutto per ragioni storico-culturali.
Un Paese che soltanto alcuni decenni fa era considerato l’El Dorado del pianeta intero.
Come uscirne dunque? Davvero difficile fornire una risposta ed ancor più complesso indicare una grande ricetta anti-crisi.
Il primo passo utile, però, resta quello della conoscenza. Della consapevolezza. Inutili, o quasi, tutte le iniezioni di energia positiva, siano esse da bar o da social network, per sperare di rovesciare il tavolo dei problemi.
Serve una colossale presa di coscienza delle nostre rispettive situazioni, così diverse nel dettaglio della propria problematicità, ma così uguali nel più ampio fotogramma di un disagio assai diffuso.
Sarebbe utile, inoltre, diffidare a priori di chi cerca di convincerci ogni giorno che tutto vada per il meglio.
Magari ci si guadagna l’etichetta di “gufi” (ho sempre amato i gufi!) e “rosiconi”. Ma si resta un po’ più liberi.

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