L’Unione Europea alla prova del Brexit

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di Lorenzo Di Muro

La lieve percentuale con cui ha avuto la meglio il fronte favorevole all’uscita del Regno Unito dall’Ue rischia di produrre effetti a catena in grado di alterare gli equilibri continentali e financo mondiali.

Durante la campagna referendaria molto si è speculato sulle implicazioni in termini di indipendenza, sia essa politica o economica, derivanti dalla permanenza nell’Unione Europea. Quest’ultima, vale la pena ricordare di questi tempi, è un’istituzione che nonostante gli indiscutibili limiti e le recenti involuzioni, ha donato pace e sviluppo senza precedenti a un continente la cui storia è caratterizzata da un susseguirsi di guerre egemoniche e conflittualità geopolitiche.

I potenziali colpi di coda del Brexit ci ricordano come nel mondo iper-globalizzato contemporaneo sia impossibile dividere sfera politico-economica interna ed esterna e dunque quanto le sorti di un paese dal respiro globale come il Regno Unito siano legate a doppio filo a quelle della comunità regionale ed internazionale.

Se è vero che la Gran Bretagna non si è mai sentita o non è mai stata considerata pienamente partecipe del progetto europeista – lo dimostrano la data del suo ingresso (1973) e la sua natura talassocratica, per non parlare dell’Efta, della mancata adozione dell’euro e dell’acquis di Shengen – è altrettanto vero che il regno di sua maestà, volente o nolente, è indissolubilmente legato alle vicende continentali.

Winston Churchill, icona della seconda guerra mondiale nonché tra i massimi protagonisti del dopoguerra nel Regno Unito, non a caso sostenne la creazione degli “Stati Uniti d’Europa”, in linea con gli auspici del Manifesto di Ventotene – quadro teorico-utopico del disegno europeista.

Il Regno Unito avrebbe integrato e controbilanciato la presenza di altri giganti come Francia e Germania, costituendone uno dei perni strategici. La scelta successiva di non aderire alla nascente Comunità Europea facendo leva sulla relazione speciale con gli Stati Uniti, salvo poi tornare sui propri passi e avviare un negoziato decennale per accedere al progetto comunitario in esponenziale sviluppo, rievoca gli stessi motivi che oggi Nigel Farage, Boris Johnson e più in generale l’Ukip assieme agli altri partiti euroscettici adducono sostenendo l’uscita dall’Unione.

Non inganni la legittimità dell’istituto referendario in quanto tale. La sovranità appartiene al popolo, ma tenendo conto del momento storico e della sua stessa natura non vincolante la sua voce non può e non deve essere strumentalizzata.

Scenario a cui fanno eco tutte le irrisolte questioni identitarie-territoriali finora congelate – si pensi in primis al revival delle questioni interne di Regno Unito e Spagna – che si intrecciano all’avversione per un’Europa trasfigurata, ostaggio della burocrazia e delle banche e lontana anni luce dalla cittadinanza, di cui è teatro la maggior parte dei paesi europei.

Mentre partiti nazionalisti, protezionisti e xenofobi fanno proseliti in tutta Europa cavalcando l’onda emotiva che si origina dalle misure di austerity sul piano economico e dalle ondate migratorie che si riversano nel Vecchio Continente, si rischia di trascurare i veri fronti verso cui dovremmo rivolgere la nostra attenzione in quanto Europa.

All’interno, il recupero di un’impronta democratico-economica complessiva volta a garantire lo sviluppo sociale ed economico di tutti, senza categorizzazioni in paesi e cittadini di serie A e B. All’esterno, l’adozione finalmente di una comune politica estera e di difesa, capace di rispondere all’emergenza che investe le sponde meridionale e orientale dell’Unione, in preda a una profonda instabilità.

I vari Front National in Francia, la Lega in Italia, il Partito della Libertà in Olanda – solo per citare alcuni dei paesi fondatori – che forti delle ultime elezioni amministrative già promettono nuove edizioni nazionali del Brexit, sono lampante riprova della cecità che, come nel romanzo futurista di José Saramago, sembra essersi diffusa alla stregua di un’inguaribile epidemia.

Ma il nostro non è un male improvviso e perciò inaspettato. È il frutto ultimo della deriva del processo di integrazione. Affonda le radici nella direzione che abbiamo impresso al tentativo di creare una casa condivisa, capace di limare vecchie rivalità garantendo pace e benessere. È facile sganciarsi tacciando “l’Europa” di esserne responsabile, sperando da una parte che sia la panacea di tutti i mali e dall’altro strumentalizzandola a fini elettorali. Ma cos’è l’Europa se non una nostra creatura?

La postura del presidente della Commissione Junker, che ha dichiarato che non saranno ammesse ulteriori negoziati invitando dunque la Gran Bretagna ad affrettare le procedure, non fa che inasprire il clima e rendere la divisione più netta. Ma a vantaggio di chi? Senza dubbio le istituzioni europee non possono essere à la carte, ma davvero in un contesto di profonde incertezza e instabilità Unione Europea e Regno unito saranno più forti nella loro solitudine?

Non dimentichiamo che assieme a quasi la metà del paese (48%) che ha votato per rimanere nell’Ue, Stati Uniti, Cina, Monarchie del Golfo e lo stesso Commonwealth si sono espressi contro la fuoriuscita del Regno Unito, per non parlare degli altri stati membri.

Se il primo pensiero è corso agli effetti sui mercati, peraltro immediatamente evidenti – oltre 2 mila miliardi di dollari bruciati globalmente all’indomani del voto; gli stessi inglesi invocano il mantenimento dell’accesso mercato unico europeo, il più grande del mondo e il principale partner economico del Regno Unito – poco risalto è stato dato al significato profondo di questo voto.

Il segnale che giunge d’oltremanica va interpretato per quello che è, un segnale appunto. Non vi è nulla di ineluttabile in un referendum non vincolante (Grecia docet), tranne la necessità di riformare un sistema europeo che è arrivato all’idiosincrasia più spinta.

Occorre (ri)costruire il demos europeo, rendere realmente democratico il processo elettivo e decisionale dei massimi organi istituzionali per riprendere il cammino dell’integrazione ormai sotto il giogo di logiche tecno-burocratiche lontane dalle esigenze reali dei 500 milioni di persone che abbraccia l’Unione. Magari evitando gli errori commessi nella conduzione della crisi greca.

Per farlo sarebbe prudente tenere le distanze da quanti, feriti dall’ennesimo voltafaccia britannico, chiudono le porte a nuove forme di concertazione. Parimenti da quelli che, schiavi degli appuntamenti elettorali, sfruttano a proprio uso e consumo l’approfondimento del sentimento antieuropeista.

Le ragioni del malcontento non sono in discussione, ma sarebbe quantomeno poco lungimirante farsi trascinare in un vortice centrifugo che vanificherebbe le conquiste, anch’esse innegabili, cui l’Unione Europea ha fatto da traino. La casa comunitaria va profondamente riformata, ma dall’interno.

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