La prova di maturità della Cina nel Mar Cinese Meridionale

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La Corte permanente di arbitrato dell’Aia ha emesso il verdetto che deve – o meglio, dovrebbe – redimere la controversia tra Cina e Filippine sullo sfruttamento delle acque contese nel Mar Cinese Meridionale. Dovrebbe, appunto, perché la Cina ha fatto chiaramente capire sin dall’inizio della vertenza nel 2013 come consideri illegittima e non vincolante la presa di posizione della Corte, adita unilateralmente da Manila. Il tribunale ha stabilito, come ampiamente pronosticato, che le rivendicazioni di Pechino sulle risorse naturali comprese nell’area non hanno basi storico-giuridiche e che l’arcipelago delle Spratly, comprese le isole su cui la Cina ha recentemente costruito istallazioni ad uso civile e militare, non determina alcuna Zona economica esclusiva.

L’area contesa, funzione dell’ascesa della Cina e della centralità strategica che riveste come snodo marittimo – tra Taiwan e lo stretto di Malacca transitano il 40% del commercio globale, l’80% dei rifornimenti energetici dei paesi dell’Asia-Pacifico e gran parte dell’import statunitense dalla regione – senza contare le risorse ittiche ed energetiche presenti, è passata alla ribalta delle cronache nell’ultimo quinquennio. In questo lasso di tempo è cresciuta esponenzialmente la tensione tra i paesi che vantano interessi o reclamano diritti sovrani nell’area – Filippine, Vietnam, Brunei, Malesia, Indonesia – e la Cina stessa, facendo del Mar Cinese Meridionale uno dei punti di maggior attrito geopolitico del sistema internazionale.

Lo sviluppo economico di Pechino, traino e specchio della straordinaria crescita regionale, ha difatti dato modo alla leadership cinese di ammodernare le proprie Forze armate e, grazie anche al potere negoziale acquisito, di rivendicare con sempre maggiore assertività la sovranità su quasi il 90% del tratto di mare in questione. Se l’obiettivo è la salvaguardia della propria sovranità, gli effetti sono l’alterazione degl equilibri strategici nell’Asia-pacifico e quindi l’inevitabile preoccupazione di Washington e dei paesi rivieraschi, alleati e non degli Usa. Proprio l’architettura messa in piedi dagli Stati Uniti, che avevano goduto di un bilanciamento di potenza favorevole nell’Asia-Pacifico dalla fine della seconda guerra mondiale, incardinato su un fitto sistema di alleanze, basi militari e sul controbilanciamento tra rivali regionali, è oggetto di una graduale erosione. Ecco dunque spiegato il ricalibramento strategico (Pivot to Asia), in termini economici, diplomatici e militari operato dall’amministrazione Obama.

Pertanto, il significato profondo della pronuncia dell’organo arbitrale va ben oltre il mero inquadramento giuridico della questione sino-filippina. Il verdetto metterà alla prova la posizione di forza acquisita dalla Repubblica Popolare Cinese negli ultimi anni e costituirà un precedente per tutti i paesi protagonisti di contenziosi con la Cina – oltre a quelli citati anche Giappone, Corea del Sud e Taiwan nel Mar Giallo e nel Mar Cinese Orientale – una vera “prova di maturità” per il gigante asiatico. Impegnata in una complicata transizione economica, Pechino dovrà decidere quale sentiero percorrere nella rincorsa al suo grande rivale strategico e unica vera potenza globale, gli Stati Uniti, i quali hanno apertamente dichiarato come la libertà di navigazione nel Mar Cinese costituisca un interesse nazionale americano, appoggiando implicitamente gli Stati che si oppongono alle rivendicazioni cinesi.

In altre parole, nelle acque del Mar Cinese, che Pechino annovera tra i propri interessi nazionali al pari degli Stati Uniti, non è in gioco soltanto il controllo di alcune delle rotte marittime globali fondamentali (Sloc) e quindi il predominio regionale. Anche l’affidabilità della Cina sul piano internazionale e di riflesso il suo soft power, ovvero la capacità d’influenza “morbida” sul globo e la percezione che ne hanno le altre nazioni, risentirà della postura che l’establishment di Pechino adotterà d’ora in avanti.

Le prime reazioni ufficiali del governo cinese sono state, in tal senso, emblematiche. Da una parte la Cina ha riaffermato con fermezza le fondamenta storiche e giuridiche su cui sostanzia le proprie rivendicazioni, dall’altra si è detta pronta a riprendere immediatamente i negoziati con le controparti su base bilaterale, in conformità agli accordi siglati con l’Asean nel 2002. E non sorprenda se la Cina definisce “un pezzo di carta” il verdetto della Corte dell’Aia, mentre i maggiori centri di potere del globo si affrettano a invitarla al rispetto del diritto internazionale. Agli osservatori più attenti non sfuggirà che gli stessi Stati Uniti, al contrario della Cina, non hanno mai ratificato la convenzione Unclos, base giuridica della pronuncia della Corte. Né che le grandi potenze, forti anche del diritto di veto in sede di Consiglio di sicurezza Onu, posseggono canali privilegiati per opporsi a ingerenze di qualsivoglia organo sovranazionale su temi al centro del proprio interesse nazionale.

La questione delle acque contese, a ben vedere, va dunque inserita nella più ampia partita tra le due maggiori potenze del globo; partita segnata paradossalmente da sostanziali legami economico-finanziari e da una rivalità geopolitica e strategica di prim’ordine.

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