Clinton vs Trump, ultimo atto

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di Luca Marfé

Twitter: @marfeluca – Instagram: @lucamarfe

NEW YORK. – Su una sola cosa sembrano essere tutti d’accordo: queste sono le peggiori elezioni della storia americana.

Eppure, alla vigilia di questa corsa a due, nessuno lo avrebbe mai pensato. Per tante ragioni. Prima di tutto perché Obama in 8 anni ha trasformato toni e maniere della Casa Bianca, rendendola la culla del politically correct, di uno stile accomodante, sorridente. Sarebbe stato lecito immaginare la sua ex-Segretario di Stato contrapposta all’ennesimo figlio della dinastia Bush in una sorta di duello di sempre tra democratici e repubblicani.

E invece no. E invece tra le stelle e le strisce è spuntato prepotente un certo Donald Trump.

Hillary la prima della classe contro Donald l’arancione.

Una candidatura, quella del Grand Old Party, capace di stabilire nuovi standard nella definizione della parola “atipica”.

Un uomo nel quale non credeva nessuno.

Non ci credeva il “suo” partito (le virgolette sono d’obbligo, il tycoon in realtà è un outsider) e forse non ci credevano nemmeno loro: il suo entourage, la sua famiglia, lo stesso Trump.

E invece, eccolo lì, nella sua corsa strampalata, con un piede oramai sulla linea del traguardo.

È fatta? Certo che no.

Non è fatta, però, nemmeno sul fronte opposto.

Diciamola tutta: Hillary non ha mai goduto delle simpatie della gente.

La sua aria da maestrina, la sua collezione di bugie, il suo occhio puntualmente strizzato all’alta finanza e ai poteri forti di questo Paese, sono elementi di un certo peso negli indici di gradimento e soprattutto nelle chiacchiere da bar.

Wikileaks e Assange l’hanno danneggiata e lo hanno fatto di proposito, forse addirittura imbeccati dal nemico numero 1, Vladimir Putin.

In questi ultimi giorni di campagna elettorale, ci ha pensato poi l’FBI ad infliggere quello che potrebbe passare alla storia come uno dei più eclatanti colpi di grazia dell’universo politico-mediatico. Riapertura delle indagini sul suo conto (tecnicamente non erano mai state chiuse, ma era da giugno che il dossier giaceva silente su una scrivania qualsiasi), scandalo delle email di nuovo al centro della scena e possibile tracollo con un Trump già dato fortemente in risalita nei sondaggi che contano.

Una sorta di incubo difficile anche soltanto da immaginare fino a qualche settimana fa. Una sorta di incubo che rischia di trasformarsi nella prossima realtà statunitense da qui ad una manciata di giorni.

Sarebbe un macroscopico errore socio-politico, però, classificare il fenomeno Trump come una variabile imprevedibile di un sistema apparentemente impazzito.

E, se milioni e milioni di americani lo ascoltano, se lo invocano come l’unico in grado di proteggere questa nazione, di renderla di nuovo grande (“Make America Great Again” è uno slogan tanto odioso quanto geniale), un motivo deve pur esserci.

E infatti c’è. Anzi, a dire il vero ce n’è più di uno.

Senza voler scendere troppo nel dettaglio di una gestione durata 8 anni, è sufficiente volare basso su profilo ed operato del presidente uscente.

Barack Obama ha ereditato un’America difficile, ha fronteggiato una delle crisi economiche più profonde dell’intera storia contemporanea, ha fatto i conti con uno scacchiere internazionale in fiamme e chi più ne ha più ne metta.
Ha avuto dei collaboratori validi che, leggi proprio alla voce Clinton, hanno di tanto in tanto commesso degli errori. Errori che ha commesso anche lui, errori che commettiamo tutti.

Errori sui quali, però, ha dato la sensazione di insistere, come nel caso della riforma ObamaCare. Nobile negli intenti, ma capace di calamitare su di sé aspre critiche bipartisan e, soprattuto, di far impennare tasse e tariffe assicurative. Un vero dramma per milioni e milioni di cittadini americani.

Questo uno dei cavalli di battaglia utilizzati dai repubblicani in campagna elettorale. Già sufficiente di per sé perché pesante come un macigno sul bilancio di tante famiglie normali.

Ma, evidentemente, non è tutto qui.

Altro tema delicatissimo è quello legato a immigrazione, integrazione e legalità.

Una delle ricchezze più grandi degli Stati Uniti è la diversità. Diversità di persone, idee, prospettive. È un fatto, però, che l’illegalità, intesa non soltanto come micro o macro criminalità ma anche e soprattutto in termini di evasione fiscale, abbia dilagato e stia tutt’ora dilagando.

Si accavallano testimonianze e lamentele di imprenditori che spiegano come i dipendenti regolarmente assunti siano meno felici di coloro che lavorano “a nero”. I primi pagati con assegni su cui gravano trattenute di ogni tipo, i secondi furbi e sorridenti con un bel rotolo di contanti e zero tasse. Gli stessi che, nella malaugurata ipotesi di una malattia o di un incidente, vanno a mungere un sistema ospedaliero (e qui torniamo alla riforma ObamaCare) cui hanno contribuito con uno zero spaccato e tondo tondo.

Insomma, qui sono in tanti ad avere la percezione di uno sgradevole “due pesi e due misure”. E Trump, con le sue promesse, per quanto poco dettagliate o addirittura campate in aria, fa gola a molti nonostante il suo fare inadeguato, imbarazzante, razzista, misogino, incommentabile.

Al di là di questi appunti specifici, infine, bisognerebbe essere in grado di distinguere il carisma di Obama, strepitoso, degno di Hollywood, dalle sue effettive capacità politiche. Senz’altro presenti, ma, come visto, non prive di lacune. Lacune che hanno alimentato ambizioni e desideri diversi da quelli che potrebbero essere coltivati in seno ad un suo eventuale “terzo mandato”, con Hillary Clinton al timone.

Clinton che, nella migliore delle ipotesi, passerà alla storia non soltanto per essere la prima presidente donna degli Stati Uniti, ma anche per il suo incamminarsi verso l’inauguration day del 20 gennaio con una bella inchiesta penale dell’FBI sul groppone.

Non il migliore degli inizi per un Paese che, in ogni caso, tra una settimana si ritroverà di colpo spaccato in due.

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