Renzi studia le diverse opzioni, ma le liste bloccate spaccano il Pd

ROMA. – Basta leggere con attenzione le dichiarazioni dei partiti nel merito della legge elettorale, per rendersi conto che avviare una discussione in Parlamento su una nuova legge elettorale può voler dire arrivare a fine legislatura e non averne una. “La proposta di legge del M5s è lunga sette pagine, potremmo passare mesi a discutere di migliaia di emendamenti”, fa notare un dirigente del Pd.

Ecco perché, all’indomani della sentenza della Consulta sull’Italicum, i renziani non cambiano idea: se non c’è, come pare, possibilità di accordo sul ritorno al Mattarellum, non si potrà che votare, a giugno, con le due leggi elettorali scritte dalla Consulta per Camera e Senato. Prima però bisogna aspettare le motivazioni della Corte, per verificare se saranno richiesti aggiustamenti.

E intanto, raccomanda Matteo Renzi ai suoi, evitare di avvitarsi nel dibattito sul sistema di voto. Con la serenità di chi ha ripreso il controllo della partita. Anche perché con i capilista bloccati, sottolineano preoccupati dalla minoranza, il segretario avrà pieno potere sulle candidature.

Renzi trascorre la giornata al Nazareno, dove incontra diversi dirigenti Dem, per preparare gli appuntamenti delle prossime settimane. Il rilancio del partito sul territorio e il programma con cui presentarsi agli elettori, sono i suoi assilli.

Renzi all’assemblea degli amministratori locali a Rimini, sabato, dovrebbe battere molto sui temi della lotta alla povertà e della battaglia per un’Europa che insiste “sui decimali”, con parole come quelle del Commissario Moscovici che il presidente Dem Matteo Orfini definisce “sconcertanti”.

Quanto alla legge elettorale, il Pd non ha ancora deciso se convocare subito un tavolo formale di confronto con gli altri partiti sul Mattarellum. Ma le bocce dovrebbero restare nella sostanza ferme fino a che, verso la metà di febbraio, saranno pubblicate le motivazioni della Consulta. Con grande attenzione alle posizioni che assumerà il presidente della Repubblica. Poi Renzi potrebbe chiamare la direzione Dem a trarre le somme.

Solo quando si saprà con che sistema di voto andare alle urne si potranno fare le valutazioni politiche: se puntare a un listone unico da Ncd a Pisapia o presentarsi con liste singole. Ma intanto nel Pd c’è grande fermento. Tra i dirigenti della maggioranza del partito si registra un sostanziale ricompattarsi attorno alla possibilità del voto a giugno, anche considerato che se si votasse nel 2018 peserebbe sulle spalle del Pd la manovra ‘pesante’ che il governo sarà chiamata a fare a ottobre.

Sottotraccia, però, restano differenziazioni, soprattutto sull’opportunità o meno di intervenire in Parlamento. Tace per ora Dario Franceschini, anche se diversi parlamentari a lui vicini hanno espresso posizioni in linea con Renzi. Mentre Andrea Orlando resterebbe convinto che “l’Italicos”, una legge sul modello greco che assegna al primo partito un premio di maggioranza fisso, sarebbe la scelta migliore: fatta la legge elettorale si può votare a giugno.

Un tema, su tutti, agita le fila del partito: i cento capilista bloccati. Con questo meccanismo Renzi ha il boccino della formazione delle liste. E la cosa preoccupa soprattutto (ma non solo) la minoranza, che teme di essere sostanzialmente esclusa. Un’avvisaglia, osservano, sembra l’indiscrezione fatta trapelare della possibile candidatura di Pier Luigi Bersani a sindaco di Piacenza (“Non esiste, ho già dato”, taglia corto l’ex segretario). Se si somma la regola statutaria del limite di tre legislature, che colpirebbe molti dirigenti, la preoccupazione è diffusa.

Con gli eletti scelti dalla segreteria e un’eventuale scelta di non fare primarie “vere” ma una gazebata, “non saremmo noi – afferma Nico Stumpo – a fare la scissione, ma la scissione sarebbe fatta dallo spirito originario del Pd”. Con il mantra ‘al voto al voto’ senza congresso, avverte Francesco Boccia, Renzi rischia di “distruggere il partito”.

(di Serenella Mattera/ANSA)

Lascia un commento