Renzi non vuole la rottura, ma la minoranza Pd non si fida

Orfini e Renzi
Orfini e Renzi

ROMA. – Matteo Renzi non vuole la rottura nel Pd e, in vista della direzione del 13 febbraio, sta riflettendo su una linea soft, “di responsabilità verso il paese ed il partito”, dicono i suoi. Non uno show down, un prendere o lasciare sul voto a giugno, ma una proposta che contempli da un lato l’accordo sulla legge elettorale, prima di tutto tra i dem, e le urne a breve. E dall’altro il prosieguo della legislatura, senza forzature, e l’anticipo del congresso del Pd.

Un abbassamento dei toni che insospettisce la minoranza, convinta che il vertice Pd stia cercando un’intesa con Fi sulla riforma elettorale con il premio alla coalizione per ottenere le elezioni a giugno anche con un incidente parlamentare per fare cadere il governo.

Al di là di un’apparente calma piatta, i nervi restano tesissimi nel Pd. Se l’assemblea dei deputati è stata rinviata al 15 per evitare di alzare il clima prima del 13, è tutto un ribollire di riunioni delle correnti: al Senato si sono visti, separatamente, l’area dei renziani e dei franceschiniani e poi i giovani turchi che fanno capo a Matteo Orfini tra i più determinati sulla necessità di trovare un’intesa elettorale per andare subito alle elezioni “altrimenti – spiega ai giornalisti in Transatlantico – una riforma elettorale non si farà più e si voterà nel 2018 con le leggi uscite dalla Consulta”.

Una linea oltranzista che l’altro leader dei turchi, Andrea Orlando, non condivide, segnalando divergenze anche all’interno delle correnti di maggioranza. E giovedì Bersani riunirà deputati, senatori ed europarlamentari. Renzi sarà costretto ad occuparsi suo malgrado delle divisioni interne e di tener conto di un rischio deflagrazione del Pd, facendosi carico in quanto segretario di un surplus di responsabilità.

“Prima il partito, prima il paese”, è la linea sulla quale l’ex premier si starebbe attestando in vista della direzione, ribadendo di non essere lui a voler precipitare il paese alle urne. Resta la convinzione che la legislatura è finita e che non è il Pd ad avere paura del voto se tutti vogliono votare.

Se, invece, il quadro politico è mutato, non saranno i dem a trascinare il paese alle elezioni anticipate. Posizione che però non cambia la determinazione del vertice Pd a cercare un accordo per omogeneizzare, come sembra chiederà anche la Consulta nelle motivazioni, i due sistemi elettorali di Camera e Senato.

L’intesa dovrebbe partire dal Pd per arrivare a Fi, Lega ed Ncd sulla base di poche e mirate modifiche, a partire dal premio alla coalizione, proposto da Dario Franceschini e Graziano Delrio. “Una cosa deve essere chiara – chiariscono i renziani – il premio alla coalizione è o ora o mai più perchè, se non si vota a giugno, noi andiamo a congresso e noi porteremo avanti la linea della vocazione maggioritaria e di una legge che dia la certezza del vincitore e alleanze chiare”.

Un avviso a tutti i naviganti, a Silvio Berlusconi ma anche ad Angelino Alfano. “Si possono discutere le proposte e non gli indovinelli”, dice Pier Luigi Bersani ammettendo di non aver capito dove Renzi voglia andare a parare. E facendo capire di non essere stato contattato per un faccia a faccia chiarificatore con il segretario prima della direzione di lunedì. L’ex segretario, comunque, non cambia idea: è inutile trascinare l’Italia al voto a giugno, è meglio concentrarsi fino al 2018 “sui problemi del paese e su un congresso del Pd che faccia chiarezza”.

(di Cristina Ferrulli/ANSA)

Lascia un commento