Ilaria Costa: “Negli Stati Uniti c’è oggi la mitizzazione dell’Italia”

La direttrice dello Iace, Ilaria Costa
La direttrice dello Iace, Ilaria Costa

NEW YORK – “L’immagine dell’Italia, oggi, è idealizzata. Nessuno si sofferma sui problemi della politica. Non importano più di tanto. Sì, è vero, a volte c’è chi fa una battuta ironica. Ma, tutto là. C’è una mitizzazione dell’Italia come terra del buon gusto e della ‘Dolce vita’. Insomma, del Paese dove lo stile di vita è unico”. Ilaria Costa non riesce a contenere la passione e l’orgoglio per le proprie origini. E’ responsabile dell’Italian American Community Education, e, come tale, è impegnata nella diffusione della lingua e della cultura italiana. Un incarico che svolge con serietà, competenza e autorevolezza.

Lo Iace, istituto fondato nel 1977, nacque per insegnare l’inglese agli emigranti italiani che numerosi s’insediavano negli States. L’inglese, come lingua, è affascinante ma anche ostica e difficile. Si afferma che la complessità risiede soprattutto nella pronuncia perché la sua grammatica è semplice in comparazione con quella delle lingue latine. Ma, è veramente così? La missione dello Iace, allora, era favorire l’integrazione dei connazionali nel tessuto sociale del Paese attraverso l’insegnamento dell’inglese. Ma, come le società, anche le nostre comunità cambiano. E la collettività italiana degli Stati Uniti non è l’eccezione. Lo Iace non poteva restare indifferente ai venti di rinnovamento.

– Ora – spiega Costa mostrando un sorriso solare -, il nostro scopo è insegnare l’italiano ai discendenti dei nostri emigrati e anche a chi non ha un rapporto etnico con l’Italia ma solo ammirazione per la nostra storia, la nostra cultura, il nostro modo di vita.

– Spesso si afferma che la prima generazione di italo-americani cercò in qualche modo di mimetizzarsi, di nascondere le proprie origini. Alcuni cambiarono nome, altri americanizzarono il proprio cognome. Oggi nei giovani pare ci sia una rivalutazione delle proprie origini. Cosa c’è di certo?

– Sì, l’ho sentito dire anch’io – ammette senza indugi. – Ed è vero. Lo facevano per integrarsi meglio. Non dimentichiamo che allora c’era una sorta di razzismo; una discriminazione verso gli italiani. Ora è evidente il contrario, c’è una rivalutazione. E questo, mi sia consentito dire, anche grazie alla nuova emigrazione, quella più recente.

Spiega che in passato l’emigrazione italiana era costituita essenzialmente da contadini e operai; giovani pieni di energia, con un bagaglio carico di sogni ma con una formazione culturale assai limitata. Erano braccianti, manovali che si sono costruiti una strada col lavoro e sono riusciti a far studiare i figli nelle migliori scuole e nelle migliori università.

– La nuova emigrazione – spiega Costa – è costituita da professionisti, da ricercatori, da scienziati. Non è più quella “manovale” di una volta. E’ il laureato che viene per frequentare un Phd; è l’intellettuale che si integra soprattutto nell’ambiente universitario.
Non senza un pizzico d’orgoglio, peraltro giustificato, sottolinea che “i più prestigiosi ricercatori sono italiani”.

In effetti, non è l’eccezione ma la regola incontrare cognomi italiani tra chi ha lasciato una traccia nell’ambito della medicina, della fisica, dell’ingegneria ed anche in quello umanistico. Non sono, poi, rari gli imprenditori di successo che oggi ricordano le proprie origini con vanto.

– Sono tante le giovani promesse, i ricercatori che in Italia non trovano sbocco e decidono d’intraprendere la via dell’America– aggiunge. – Quindi, quella dei nostri giorni, è un’emigrazione diversa; è un’emigrazione che contribuisce a rivalutare l’immagine dell’Italia. E’ questa la ragione per cui, come dicevo all’inizio, si tende a mitizzare, a idealizzare l’immagine dell’Italia.

Il Belpaese, quindi, come modello, uno stereotipo da invidiare e imitare. In particolare, in una nazione in cui la vita scorre tanto velocemente che è sempre più difficile godersela.

– Per l’americano lo stile di vita italiano rappresenta un qualcosa che vorrebbe avere, acquisire – precisa Costa. – Noi, ad esempio, facciamo corsi di cucina per bambini e adulti. Vanno alla grande, sono un successo. Sono lezioni di cucina in italiano che, alla fine, si riducono a come fare “due spaghetti” col pomodoro e un’insalatina. Ma c’è tanta gente che li frequenta. Il “made in Italy”, in particolare nella cucina, è un marchio di qualità.
Ma non è tutto, naturalmente. Lo Iace, ad esempio, organizza per i più piccini visite ai musei e alla Ferrari e per gli adulti l’Opera.

– Opera, food, fashion… sono questi gli aspetti che caratterizzano lo stile di vita italiano…

– Sì – ci dice con un pizzico d’ironia -. Noi le chiamiamo le “tre effe”: Food, Fashion, Ferrari. Lo Iace, per i bambini, organizza visite presso la Ferrari. E qui, con l’aiuto di un particolare “software”, si dilettano a disegnare al computer l’auto dei loro sogni.

Moda, cibo, Ferrari sono tutte esche, strumenti per avvicinare bambini e adulti alla lingua. Si crea un rapporto affettivo, commerciale e, si spera, culturale.

– I nostri, in realtà – precisa la responsabile dello Iace -, sono corsi veicolari. Si insegna la lingua attraverso un contenuto culturale.

– La nuova emigrazione, si avvicina? Collabora?

– Si, abbastanza – afferma per poi entrare nel tema scuole. Sostiene che la nostra scuola italiana, la Guglielmo Marconi, è stupenda e ha un programma meraviglioso.

– Ma, come tutte le scuole americane, è costosa – asserisce per poi immediatamente precisare:

– A dir la verità, se la si paragona con le scuole americane, non lo è tanto…

– Ci è stato detto che la scuola pubblica locale è abbastanza buona…

Non è convinta. Esprime i suoi dubbi con molta onestà.

– Nell’area di New York… dipende … Negli Stati Uniti ci sono scuole per “gift talent students”. A New York ve ne sono solo tre o quattro. Sono scuole pubbliche nelle quali, per essere accettati, bisogna essere studenti particolarmente applicati. In generale, i giovani bilingue non hanno grossi problemi. Loro hanno una marcia in più. Ma, secondo me, il sistema è selettivo. Non tutti i giovani sono bilingue. Queste sono scuole abbastanza buone. Le altre…

– Quindi bisogna orientarsi verso la scuola privata…

– Ma quelle private, e questa è una mia opinione personale – precisa, – costano troppo… sui 40mila dollari l’anno…

– Quasi come frequentare una università…

– In effetti – ammette. – La scuola privata ti garantisce l’accesso a ottime università. Quindi i genitori sono orientati a fare un sacrificio…
Si sofferma sulla Scuola d’Italia Guglielmo Marconi il cui livello d’insegnamento considera ottimo e il costo relativamente moderato a paragone di altre.

– E’ assolutamente su un altro livello – ci dice. – L’impegno economico richiesto è inferiore alla media ma la qualità è senz’altro superiore.

Ilaria Costa e Lucia Pasqualini, per quattro anni vice-console a New York

E torniamo alla missione dello Iace. Sostiene che si sta facendo un tentativo di riprodurre il modello vincente della “Scuola d’Italia Guglielmo Marconi” nelle scuole pubbliche americane.

– Stiamo cercando di imporre un programma di bilinguismo – commenta -. Ci sono i “duo program language” che seguono anche i francesi, gli spagnoli e i cinesi. La maggiore difficoltà, nel nostro caso, è che la comunità italiana è molto dispersa geograficamente. La nuova emigrazione, poi, non è così numerosa come quella cinese o francese.
Afferma che i francesi sono “senz’altro più uniti e sono riusciti a dare una struttura particolare ai programmi che si svolgono in alcune scuole pubbliche, riqualificando tutto il curriculum.

– Sono riusciti a realizzare una integrazione graduale – spiega. – E’ quello che cerchiamo di fare anche noi. Se integriamo il programma americano, che magari non è dei migliori, con un buon programma italiano, se riusciamo ad arricchirlo, permetteremo ai figli d’italiani di avere una marcia in più.

Per il momento lo Iace ha iniziato due corsi del “Duo Language Program” che prevede un bilinguismo “fifty/fifty”

– E’ un programma metà americano e metà italiano – chiarisce. – Quindi non facile da fare accettare nelle scuole pubbliche. Noi ne vorremmo iniziare altri ma per farlo abbiamo bisogno di un nucleo di genitori che vada dal preside della scuola e dica: “noi vogliamo che si applichi questo programma”.

Si rammarica perché, a differenza di altre etnie che si sono organizzate, la comunità italiana è frammentata.

– I genitori, per far richiesta del programma – aggiunge – devono vivere nella stessa zona. E dovrebbero comunque fare “massa critica”. Insomma, andare dal Direttore della scuola pubblica e dirgli: “vogliamo assolutamente l’inserimento nella tua scuola pubblica di questo programma e di questa lingua”. La richiesta deve essere fatta in maniera anche aggressiva, energica. E’ un lavoro che deve essere realizzato in raccordo con le famiglie. Il Consolato si è mostrato molto disponibile e ci aiuta nell’aggregazione delle famiglie. Siamo riusciti a far partire alcune iniziative ma non siamo soddisfatti. Vorremmo farne partire altre.

Ilaria sostiene che il ministero è stato lungimirante e realizza, sostenendo lo Iace, un piccolo investimento per ottenere un ritorno in termini di turismo.

– Se investisse un po’ di più certamente il ritorno sarebbe maggiore– ci dice. – Non ci lamentiamo perché non ci trattano male. Consideriamo, comunque, che alla Scuola Italiana dovrebbero dare di più. Sicuramente favorirebbe le famiglie italiane italo-americane, quelle generazioni che vogliono mantenere un legame con noi.

– Quali sono i rapporti con le altre istituzioni italo-americane che si dedicano alla diffusione della lingua e della cultura italiana?

– Collaboriamo con tutti – ci dice immediatamente. – Per legge, comunque, possiamo solo finanziare i corsi dal pre-grado al liceo. Per cui, ci limitiamo a realizzare alcuni eventi in collaborazione. Spesso con Casa Italiana Zerilli Marimò e con Stefano Albertini che ne è il direttore. Noi abbiamo i numeri…. gli studenti, ma non lo spazio. Quello di cui abbiamo bisogno è di spazio fisico. Loro ci aprono sempre le porte come d’altronde anche il nostro Istituto Italiano di Cultura. Abbiamo collaborato con Cuny, il college di New York e con “Casa Italiana” della Columbus University. In seno alla nostra Collettività ci sono varie associazioni italo-americane. Con alcune cooperiamo di più, con altre meno; ma non c’è concorrenza tra noi.

In particolare si sofferma sulla collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura al quale, per legge, non è permesso impartire lezioni di lingua. I corsi d’italiano, quindi, sono responsabilità dello Iace che è una associazione no-profit americana.

– Realizziamo corsi d’italiano per adulti e bambini – spiega -. E questo ci permette di avere degli introiti. Comunque almeno il 50 per cento del nostro budget viene dal Ministero degli Affari Esteri ed è impiegato nei corsi d’italiano in sedi americane, presso le scuole. La scuola americana non ha spese. Siamo noi ad integrare il salario degli insegnanti o a garantire l’acquisto del materiale didattico. Il finanziamento che riceviamo dal Ministero, quindi, è investito solo per la formazione della fascia della scuola dell’obbligo: dall’asilo al liceo.

Aggiunge che gli adulti che frequentano i corsi dello Iace per passione e i bambini che assistono a quelli extracurricolari invece pagano.

La sede dello Iace è vicinissima a quella del nostro Istituto Italiano di Cultura nell’elegante palazzina in stile neo-georgiano nella Park Avenue. Per accedere all’ufficio del Direttore dell’Iic, Giorgio Van Stratten, è necessario salire le scale; al contrario, bisogna scenderle per accedere a quello della Direttrice dello Iace, Ilaria Costa. La ragione è semplicissima: lo Iace funziona in alcune stanze messe a disposizione dallo stesso Iic.

– Abbiamo firmato una convenzione con l’Iic – spiega – che ci permette di avere i nostri uffici qui. Per noi va benissimo.

Nuova emigrazione. Giovani che lasciano la Madrepatria per inseguire anch’essi il sogno americano, studenti e ricercatori con ambizioni o, nel caso dei nostri figli, ragazzi che dopo aver terminato il percorso accademico desidererebbero un futuro migliore di quello che purtroppo oggi offre il Venezuela. Cosa fare per inserirsi nella società americana? Lo chiediamo a Costa.

Non ha dubbi. Con estrema franchezza, ci parla dei visti di lavoro e delle difficoltà per ottenerli.

– E’ molto difficile – afferma. – Forse la cosa migliore, se uno se lo può permettere, è frequentare l’università. Certo, lo sappiamo, costa tantissimo. Richiede uno sforzo economico non indifferente; ma permette la creazione di una rete di conoscenze, e di fare “stage” di lavoro. Sono poi queste aziende quelle che sponsorizzano il visto.
Costa sottolinea che il giovane che viene dall’Italia senza avere un contratto di lavoro si trova subito in difficoltà. Gli ostacoli, comunque, possono aggirarsi.

– Cosa si può fare se si è già laureati? Il discorso vale anche per loro?

Muove affermativamente la testa. Spiega:

– Sì, salvo che non abbia una competenza specifica per cui può essere relativamente semplice trovare un’azienda che lo sponsorizzi, e lo preferisca ad un americano. Gli Stati Uniti sono un Paese molto protezionista in questo ambito.
Se c’è un americano capace di svolgere un lavoro, perché contrattare uno straniero?

Sostiene convinta che i nostri giovani, la nuova emigrazione, sono molto preparati e assai qualificati.

– Molti stagisti – ci dice – vengono allo Iace attraverso un programma che abbiamo col Ministero. E devo riconoscere che la loro preparazione è ottima. Provengono dall’Università per Stranieri di Perugia e da quella di Siena. Sono esperti nell’insegnamento dell’italiano come seconda lingua, esperti in “auto-didattica”. Hanno un profilo professionale perfetto per noi. E devo dire che attraverso loro molte volte avviene l’aggiornamento nella metodologia didattica per i docenti locali. A volte, si perde il contatto con l’italiano. E lo capisco. Nel mio caso è diverso perché ho un rapporto costante con l’ambiente italiano ma per un insegnante il cui contatto con l’italiano è solo nella scuola è più difficile.

– Questi giovani, questi neo-laureati sono bravissimi – insiste -. Sono delle risorse che siamo contentissimi di ricevere, di accogliere. Sono vettori di diversità, di innovazione, di aggiornamento.

Harvard University, il campus col suo viavai di studenti

E, a questo punto, si riallaccia alla nostra domanda precedente.

– Io consiglierei, ai giovani già laureati, un percorso post-universitario. Il percorso universitario di base è preferibile svolgerlo in Italia o in Venezuela, qui i costi sono proibitivi e la qualità non è poi altissima. Al contrario, i corsi di specializzazione sono ottimi.

– Ci parli della nostra Comunità, ne faccia una radiografia per i nostri lettori che non vivono negli States …

Sorride e, dopo una breve pausa, ci dice:

– Ci sono tante comunità, tanti “tipi” di comunità. C’è quella che io definisco italo-italiana, ci riferiamo a quella recente; c’è poi quella italo-americana, che si esprime ancora nel dialetto del paesetto italiano; c’è quella dei diplomatici, sempre molto fluida e c’è quella dei ricercatori. Devo dire che comunque il loro tenore di vita è medio alto.

– Sono comunità integrate tra loro?

Costa ha i suoi dubbi e li manifesta apertamente, con la franchezza che l’ha caratterizzata in questo incontro con la Voce.

– Non direi; secondo me no – commenta. – Penso siano tante isole. Non c’è comunicazione, specialmente tra quella italo-italiana e quella italo-americana. Il nostro Consolato fa sforzi per creare vasi comunicanti ma… E’ probabile che sia colpa degli italo-italiani… C’è una specie di snobismo culturale. Forse l’italo-italiano si trova a disagio con chi parla in dialetto. Anche nel mio caso, all’inizio c’era una diversità con la quale non riuscivo a relazionarmi. Poi, però ho cominciato ad apprezzare il grande valore di questa comunità che ha fatto da battistrada.
E gliene sono molto grata. Ma all’inizio, ripeto, anch’io ero un po’ “snob”, come tutti quelli che vengono oggi. Non sanno, non conoscono le loro storie. Gli italo-americani sono diversi. Sono più radicati di noi perché vivono nel paese da tanto tempo. Conoscono le situazioni locali e sono riusciti a fare lobby. Hanno un potere che noi non abbiamo. D’altronde il programma bilingue è partito grazie a loro.

Spiega che è stata la comunità di Brooklyn a muovere i primi passi grazie a un preside italo-americano che “si è rimboccato le maniche”.

– E’ stato lui che ha detto questo si fa – commenta per concludere. – Conosceva il “superintendent” e il governatore. Ha messo su il programma e ha fatto quello che noi non eravamo riusciti a fare. Queste due nostre realtà, non so come, dovrebbero trovare il modo di integrarsi, di conoscersi e di collaborare. Dopotutto, non sono poi così diverse.

Mauro Bafile

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