Trump ordina: “Guardia nazionale al confine col Messico”

Il muro al confine messicano con le croci dei morti. Shutdown
Il muro al confine messicano con le croci dei morti.

WASHINGTON. – La Guardia nazionale al confine con il Messico, forse già nelle prossime ore. Questa l'”azione forte” preannunciata via twitter da Donald Trump e illustrata dalla Casa Bianca, dopo che ieri il tycoon aveva evocato il dispiegamento dell’esercito fino alla costruzione del muro per fronteggiare l’immigrazione clandestina dal centro America.

Il presidente ha firmato un ordine perché il dipartimento della Difesa e quello per la Sicurezza Interna lavorino con i governatori per procedere al dispiegamento della Guardia Nazionale alla frontiera sud, ha spiegato il segretario per la Sicurezza Interna Kirstjen Nielsen. “La sicurezza delle frontiere riguarda la sicurezza interna che è a sua volta è sicurezza nazionale. La minaccia è reale, è il momento di agire”, ha aggiunto, auspicando un dispiegamento “immediato”.

Non è al momento chiaro però quante truppe verranno impiegate né quanto a lungo resteranno in servizio al confine o quanto costerà l’operazione. Il mandato della Guardia Nazionale sarà di supporto alle autorità di frontiera, senza competenze nella detenzione e gestione degli immigrati che attraversano il confine illegalmente.

“Questa è una grande mossa. Non l’abbiamo mai fatta prima, o certamente non moltissimo”, aveva anticipato ieri Trump. In realtà non è il primo presidente a mandare la Guardia nazionale alla frontiera meridionale. Nel 2010, incalzato dalle tensioni politiche al confine alimentate anche dal suo ex rivale presidenziale John McCain, Barack Obama spedì 1.200 uomini: la sua speranza era portare il Grand Old party ai negoziati per una riforma completa sull’immigrazione, compreso un percorso di cittadinanza per gli 11 milioni di illegali presenti in Usa. Non servì a nulla.

Quattro anni prima George W. Bush ne inviò 6.000, premurandosi però di sottolineare che gli Usa non stavano militarizzando il confine a sud e che il Messico restava “un nostro vicino, un nostro amico”. Trump invece ha già fatto saltare ogni tavolo di negoziato con i dem sull’immigrazione e tratta il Messico a colpi di ultimatum, come quelli per fermare la carovana di immigrati dal centro America diretti verso gli Usa, minacciando di cancellare l’accordo commerciale nordamericano del Nafta.

Intanto il Messico ha annunciato di aver cominciato a distribuire visti umanitari o di transito ai migranti della carovana, che hanno cominciato a disperdersi gradualmente per decisione dei suoi partecipanti, come ha riferito il ministro degli Esteri Luis Videgaray. Lo stesso Videgaray aveva confermato poco prima che il suo governo ha chiesto agli Stati Uniti, “attraverso i canali ufficiali”, di spiegare le dichiarazioni del presidente “sull’uso dell’esercito alla frontiera” fra i due paesi, per poter “definire la sua posizione” al riguardo, “in difesa della nostra sovranità e degli interessi nazionali”.

Il governo messicano è sotto pressione anche da parte dei gruppi di difesa dei diritti umani e delle ong, che accusano Enrique Peña Nieto di “fare il lavoro sporco” al posto degli americani, con programmi per contenere l’arrivo di irregolari centroamericani sulla sua frontiera meridionale, come chiede Trump. Ma il tycoon non è per nulla soddisfatto e continua ad incalzare il Messico.

Ormai sembra tornato in piena campagna elettorale in vista delle elezioni di midterm a fine novembre e cerca di mobilitare la sua base per evitare che i repubblicani perdano il controllo del Congresso. Il suo tallone d’Achille rischia di essere il muro col Messico, per il quale ha ottenuto solo pochi spiccioli nella legge di bilancio, tanto da ipotizzare di farlo costruire a spese del Pentagono.

Ora ha tirato fuori dal cilindro la militarizzazione del confine. Nel frattempo la Casa Bianca sta mettendo a punto un’altra stretta sui migranti, compresi i minori non accompagnati, premendo sul Congresso perché “agisca”. E vuole imporre ai giudici una quota minima di 700 casi di espulsione l’anno per ricevere un giudizio “soddisfacente”. Uno standard che, lamentano i sindacati, rischia di minare l’indipendenza della giustizia.

(di Claudio Salvalaggio/ANSA)

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