Lula verso il carcere, respinto il ricorso in Brasile

BRASILIA – Dura sconfitta per Lula Da Silva: il Supremo Tribunale Federale del Brasile ha respinto la sua richiesta di habeas corpus e ora l’ex presidente brasiliano rischia di finire in prigione, dove deve scontare una condanna a 12 anni per corruzione malgrado continui a denunciare di essere vittima di un complotto golpista.

Al termine di un’estenuante udienza durata più di dieci ore, con il Paese con il fiato sospeso, il Tribunale ha deciso per un solo voto, 6 contro 5: decisivo è stato quello della giudice Rosa Weber, che ha scelto di respingere la richiesta presentata dai legali di Lula.

L’ex presidente chiedeva fosse sospesa la pena che gli è stata inflitta – 9 anni in prima istanza a Curitiba, diventati 12 in appello a Porto Alegre – per corruzione passiva e riciclaggio finché i suoi legali non avessero esaurito ogni possibile ricorso contro la condanna. La sentenza spalanca così a Lula le porte del carcere.

I suoi avvocati hanno tempo fino a martedì prossimo per presentare un nuovo ricorso, ma è dato per scontato che sarà velocemente respinto. Questo significa che probabilmente già la settimana prossima il caso tornerà nelle mani di Sergio Moro – il magistrato diventato il simbolo delle inchieste anti-corruzione in Brasile, un po’ come fu Antonio Di Pietro per Mani Pulite – che potrà chiedere che la pena inflitta all’ex presidente diventi esecutiva, ordinando la sua incarcerazione.

Lui, Lula, è sbottato nell’ascoltare la sentenza del Tribunale: “Non hanno fatto un golpe per poi lasciarmi candidare!”, ha urlato ai suoi collaboratori, inserendo i suoi guai giudiziari nella stessa “strategia golpista” che ha portato all’impeachment di Dilma Rousseff due anni fa.

La stessa tesi è stata riecheggiata dal suo Partito dei Lavoratori (Pt) in un comunicato nel quale si accusano i giudici del Tribunale Supremo di essersi “inginocchiati” davanti a presunte pressioni “orchestrate in modo scandaloso da Globo”, il principale gruppo di comunicazione del Paese.

In Italia un gruppo di dirigenti della sinistra – fra i quali gli ex premier Romano Prodi e Massimo D’Alema – in una dichiarazione comune hanno espresso la loro “grande preoccupazione” per il fatto che “una sentenza discutibile” e con “elementi di persecuzione personale” possa impedire a Lula di presentarsi come candidato alle presidenziali di ottobre nelle quali, “stando ai sondaggi, ha notevoli possibilità di successo”.

Formalmente, il Pt deve ancora presentare la candidatura di Lula: le iscrizioni avverranno ad agosto e fino a quel momento l’ex presidente potrà continuare a svolgere la sua campagna, tanto nelle piazze come da una cella di prigione. Ma la legge elettorale vieta la candidatura di cittadini che siano stati condannati in secondo grado da un tribunale non monocratico, per cui è poco probabile che quella di Lula venga ammessa.

Comunque vada, la sentenza del Tsf segna un nuovo capitolo nella polarizzazione, apparentemente inarrestabile, dell’opinione pubblica brasiliana. Per gli oppositori di Lula, che hanno festeggiato in piazza, rappresenta un trionfo nella lotta contro la corruzione e la dimostrazione che “nessuno è al di sopra della legge”, mentre per i suoi simpatizzanti è solo un’altra mossa in una partita sporca di golpismo strisciante, disegnata a tavolino per eliminare un leader politico scomodo e troppo popolare.

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